Spiegare la filosofia a dei teenager americani è un’esperienza singolare. Non avendo fatto filosofia alle superiori non sono abituati all’idea che ci siano semplicemente «problemi da filosofi» e «parole da filosofi». Pertanto, tutte le volte che introduci un nuovo problema filosofico per prima cosa sei costretto a chiederti come fargli capire che si tratta di un problema reale, altrimenti ti guarderanno sbigottiti per il resto dell’ora. Le alternative qui sono due: O spremersi le meningi per trovare degli esempi pirotecnici oppure chiedersi in prima persona se il problema in questione è un problema reale e perché.
Mi sono trovato in una situazione del genere qualche settimana fa dovendo introdurre alla mia classe di matricole il problema del naturalismo e, in particolare, la critica al naturalismo formulata da Edmund Husserl (1859-1938), il filosofo sul quale lavoro da diversi anni. Detto in breve, il naturalismo è la posizione per cui tutto quello che esiste è natura o riconducibile alla natura, laddove per natura si intende la realtà fisica studiata dalle scienze.
Il che significa, per esempio, che quando pensiamo 2+2 = 4 la correttezza di quest’equazione è interamente fondata su fatto empirico – l’atto mentale di aggiungere 2 a 2 che conduce all’atto mentale di pensare 4 – il quale a sua volta è fondato su un fatto fisiologico – una determinata scarica di neuroni nel nostro cervello. Se avessimo un cervello fatto in un’altra maniera 2+2 potrebbe fare cinque o verde, oppure potrebbe non esserci affatto un 2 da sommare a un altro 2.
Va da sé che se per il naturalista addirittura le verità logiche e matematiche vanno intese in questo senso, altri ambiti d’azione della ragione umana, quali la deliberazione e la scelta, sono da considerarsi al più delle pie illusioni. Buona parte del lavoro filosofico di Husserl consiste nel tentare di superare le assurdità insite in questa posizione.
Ora, come spiegare tutto questo ai miei teenager americani? Qual è il vero problema del naturalismo, quello vivo, che il vero filosofo non inventa ma al più subisce? Che cos’è il naturalismo? Un’epistemologia traballante? Un determinismo morale?
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Ironicamente, rimuginavo queste domande mentre spingevo il carrello tra le corsie di un supermercato, cercando così di ottimizzare i tempi per tenere il passo con i ritmi accademici americani. Alla cassa arriva la risposta: tra le varie riviste esposte noto il nuovo numero di Knowledge, la popolare rivista di divulgazione scientifica della BBC. In copertina spicca una mela rossa morsicata con i sette vizi capitali incisi sulla buccia. Il titolo suona: Nati per peccare. La scienza spiega perché è bene essere cattivi. Più interessante della malizia antibiblica un po’ grossolana e del pasticcio categoriale del titolo (religione, epistemologia e morale combinate insieme in un cocktail che avrebbe fatto rizzare i capelli al buon Kant) è la seguente domanda: perché il lettore medio di Knowledge si aspetta che sia la scienza a spiegargli che cosa è bene e che cosa è male?
Ho fatto questa domanda in classe. Paul alza la mano e risponde: «Professore, ma perché se ci sono risposte a domande del genere, la scienza prima o poi dovrà essere in grado di trovarle!». Bravo Paul. Questo è il vero volto del naturalismo. Come Husserl comprese sempre più profondamente negli ultimi anni della sua vita, prima di essere un problema epistemologico, morale o fenomenologico il naturalismo è un problema culturale: un insieme di speranze mal riposte. È la speranza che il metodo scientifico-naturale, mostratosi così potente nello spiegare i fenomeni della realtà fisica, possa infine dar forma a tutte le movenze della ragione e condurla sulla strada sicura della scoperta della verità.
Ma il metodo delle scienze naturali, spiega Husserl, era nato originariamente come tecnica di indagine speciale all’interno di un compito razionale di portata ben più ampia. La cultura occidentale nasce sotto la stella della filosofia in Grecia con un compito: l’elaborazione a tutto campo di verità riconoscibili e accettabili da ogni soggetto razionale e non meramente condivise in base a costumi tradizionali. In altre parole, la cultura occidentale nasce dotata di un assetto motivazionale ben preciso e positivamente ambizioso: cercare la verità di tutto ciò che c’è (e “ciò che c’è” spazia dalle stelle nel cielo notturno alla forma di vita comune più umana alla questione se vi siano o meno degli dei e un aldilà).
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Questo assetto motivazionale si è progressivamente alterato quando la forza della ragione ha cominciato a venire investita soltanto in un campo: l’indagine quantitativa della natura in nome di un progetto di dominio e aumento del benessere. Ma, continua Husserl, come un organo del corpo si ammala quando smette di assolvere alla propria funzione specifica, così una cultura si ammala quando smette di assolvere al compito cui la sua origine la destina. Nel caso della cultura occidentale questa malattia è il naturalismo: un’ipertrofia della ragione quantitativa e induttiva che, in base ai suoi innegabili successi in campo fisico, ha preteso e pretende di erigersi ad unica forma espressiva legittima della nostra vocazione razionale. E così ci troviamo a nutrire speranze segrete e desiderare che la scienza si pronunci su quello che ci sta più a cuore e ci dica, ad esempio, cosa è bene e cosa è male.
Husserl scriveva che «le mere scienze di fatto creano meri uomini di fatto». E tuttavia anche gli uomini di fatto nutrono la speranza segreta che le scienze naturali li elevino un giorno dalla sfera di ciò che è meramente empirico alla sfera del senso e del valore. È questa speranza – per lo più implicita e inconscia – che li spinge ad acquistare riviste come Knowledge.
«Professore, ma quindi quello che Husserl non condivide è che ci sia un solo modo di usare la ragione per scoprire cose vere? E come si fa a riattivare quei modi di usare la ragione che sono stati trascurati da quando si è affermato il naturalismo?». Poco prima che finisca l’ora è questa la domanda di Paul, che decidiamo di lasciare aperta per la prossima volta. Mentre esco sorrido tra me e me: già soltanto questa domanda è il segno che Paul (insieme a Husserl) si è lasciato il naturalismo alle spalle.