Ho letto e apprezzato l’editoriale del sussidiario apparso l’altro ieri, a firma di Graziano Tarantini, dal titolo “Ossessione etica”. E molte sono le riflessioni che ha suscitato.

Vorrei però soffermarmi su un’espressione che Tarantini butta lì un po’ frettolosamente, e che, detta così – e fatte salve le intenzioni, che condivido – appare molto ambigua e può dare adito a una certa confusione o a prese di posizione arroganti.



La frase è la seguente. “La storia letteraria, artistica e del pensiero del resto ha molto da insegnarci. È piena di portaborse del potere che hanno prodotto opere immortali, mentre di tanti uomini virtuosi e incorruttibili, alieni da ogni compromesso, non è rimasta traccia”.

Le cose non stanno esattamente così. La realtà viene prima delle nostre opinioni, anche quando queste opinioni sono giuste. Che tanti artisti abbiano predicato bene e razzolato male, come spiega Pigi Colognesi in un articolo comparso ieri, sempre sul sussidiario, è vero, come è vero che l’incoerenza e la fragilità morale inducono spesso l’artista poco provvisto di coraggio pubblico a farsi coraggioso perlomeno verso sé stesso. Penso sempre a un poeta secondo me sottovalutato, Giosuè Carducci, uno dei migliori poeti politici della nostra storia, in cui il tema del tradimento politico appare come un fil rouge importantissimo (molte sue opere, per esempio la celeberrima Davanti San Guido, sono piene di questa amarezza).



Tuttavia per trarre i giusti insegnamenti dalla storia letteraria, artistica e del pensiero occorre innanzitutto osservare queste cose con una certa attenzione, spenderci del tempo.

Qui, tra l’altro, non si tratta di coerenza o meno: Tarantini parla di portaborse, quindi di un’esplicita adesione a un progetto di potere.

Il problema del rapporto tra scrittori, artisti e potere è un problema complicato. I portaborse del potere che hanno prodotto opere immortali ci sono, ma non sono poi tanti. E comunque il problema non sta né nell’essere portaborse né nell’essere virtuosi e incorruttibili (anche perché quest’ultimo caso non si dà mai).



Se D’Annunzio, Sartre e Moravia sono stati a loro modo portaborse del potere (di questo o di quello poco importa), ci sono artisti che hanno rischiato la fucilazione (Dostoevskij), che hanno patito l’esilio (Ovidio), oppure sono stati messi al bando come si fa con gli scemi del villaggio (Cézanne), o in galera (Havel), o la scomparsa fisica unita alla dimenticanza (Grossman, Mandel’stam). In molti casi, furono proprio i cosiddetti portaborse a salvare da una sorte peggiore i loro colleghi messi al bando: c’è chi considera portaborse anche Boris Pasternak.

Ma il problema vero è che queste categorie non servono a capire come stanno le cose. Chi è l’artista? È un uomo che segue una certa predisposizione fino a che, spesso per casi fortuiti, questa predisposizione diventa un destino. Mio fratello scrive bene quanto me, ma io sono diventato scrittore e lui no.

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Nel momento in cui uno capisce che quello è il suo destino, cosa può fare se non cercare di seguirlo? Così si diventa artisti, personaggi pubblici, chiamati a mettere nelle loro opere la vita del mondo che li circonda, i costumi, i progetti, le tare, fino al segreto dei cuori passando attraverso ritratti, paesaggi, vicende tragiche, casi ridicoli, e così via.

Parlando della vita, dipingendo la vita, scolpendo la vita, cantando la vita, è inevitabile che l’artista si imbatta nel potere. Qualsiasi tipo di potere. Giotto ha potuto affrescare la Cappella degli Scrovegni perché ha ottenuto la commessa da chi aveva il potere su quel luogo.

 

Avere il potere non vuol dire solo spadroneggiare (potere tirannico) o gestire (potere tecnocratico): vuol dire anche detenere un senso. Il senso della Sistina, per esempio, non ce l’ha Michelangelo, ma il Papa. Agli artisti questo piace, almeno finché questo senso non si trasforma in obbligo. Quando il potere diventa forte e richiede all’artista un’adesione di fondo, fino a diventare un funzionario dell’ideologia, allora la libertà dell’artista si mette in gioco. C’è chi ha aderito pienamente, come il nazista Heidegger o il fascista D’Annunzio, e chi si è opposto, accettandone le conseguenze.

Il vero guaio sta negli interpreti di questi fatti. Noi spesso giudichiamo queste cose in chiave moralista (su questo Tarantini ha ragione), definendo cattivi i primi e buoni i secondi. Qui sta la radice della confusione! Quello che dovremmo domandarci è se, agendo nel modo in cui hanno agito (nell’uno come nell’altro), questi uomini hanno salvato la possibilità di dire quello che dovevano dire.

 

Heidegger fu probabilmente un uomo orribile, così come Michelangelo fu un genio insopportabile. Ci furono però anche uomini di grande bontà e mitezza, che dalla furia del potere subirono ogni umiliazione. Quello che io so, ammirando le loro opere – e se necessario discutendole (una grande opera è sempre discutibile, l’indiscutibilità appartiene ai mediocri) – è che questi uomini, ciascuno secondo le proprie inclinazioni, ideologie, gusti ecc., hanno dato la misura di sé. Hanno detto fino all’ultima sillaba quello che ritenevano di dover dire. Hanno fatto le loro scelte cercando, sia nell’adesione sia nell’opposizione, di salvare il dono che avevano ricevuto, per donarlo al loro volta.

 

Ci sono stati, poi, molti portaborse del potere e molti “duri e puri” che erano, semplicemente, artisti mediocri. Mai fare di ogni erba un fascio, né in una direzione né nell’altra (sempre moralismo è). Arte e potere hanno spesso bisogno l’una dell’altro, ma la mia impressione è che, al fondo, non si conoscano. L’artista può essere più o meno furbo, ma il potere è sempre un’altra cosa. E il potere può essere più o meno magnanimo e praticare il mecenatismo, ma l’arte è sempre un’altra cosa. È il segno tenace, testardo della nostra strutturale debolezza, del nostro limite, segno indefettibile della nostra dipendenza.