«L’etica non è una cosa esterna, ma interna alla razionalità e al pragmatismo economico», ha detto il Papa ai giornalisti sul volo che lo portava in Portogallo. «Vediamo un dualismo falso – queste le parole di Benedetto XVI, che rispondeva ad una domanda sulla crisi economica europea – , cioè un positivismo economico che pensa di potersi realizzare senza la componente etica, un mercato che sarebbe regolato solo da se stesso, dalle pure forze economiche, dalla razionalità positivista e pragmatista dell’economia – l’etica sarebbe qualcosa d’altro, estranea a questo. In realtà, vediamo adesso che un puro pragmatismo economico, che prescinde dalla realtà dell’uomo – che è un essere etico -, non finisce positivamente, ma crea problemi irresolubili».



Questa frase è la più importante rivoluzione economica degli anni duemila. Cerchiamo, innanzitutto, di definire la parola etica, che troppi convegni hanno impolverato fino a quasi non riuscire più a vederla. L’etica è l’agire economico quando esso è finalizzato alla produzione di benessere, che non si esaurisce nella sfera economica, per gli stakeholder attraverso la creazione di valore che l’impresa genera. Etico è avere come scopo dell’agire economico la persona (dipendente, fornitore, cittadini del territorio circostante) e non il funzionamento del mercato.



Così un corso di formazione per i dipendenti che permetta loro di trovare più facilmente un nuovo posto di lavoro, è più etico di una elemosina concessa alle opere benefiche della città. Non è sbagliato ristrutturare una Chiesa o restituire un quadro al suo antico splendore, ma non si lo si può far passare come atto etico, come per anni è stato, quando spesso si trattava di una legittima (e magari di successo) operazione di marketing. È mecenatismo che, pur sano, non c’entra nulla con i meccanismi di creazione di valore dell’impresa. L’etica, afferma il Papa, o è dentro i meccanismi di creazione di valore o non è.



Ciò che sta a cuore a Benedetto XVI è che l’impresa concepisca sé stessa come entità finalizzata allo sviluppo delle persone. Questo è una delle sottolineature più rilevanti della sua ultima enciclica, Caritas in Veritate, e ne rappresenta anche una delle più rilevanti novità.

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Nel concreto ciò vuol dire che le spese in ricerca e sviluppo, finalizzate alla creazione di prodotti innovativi, è più etica della competizione tutta basata sulla riduzione dei costi di produzione. E questo perché le innovazioni permettono, almeno potenzialmente, una maggiore sicurezza del posto di lavoro a lungo termine per i dipendenti, i quali sono i primi a pagare scelte competitive “al ribasso”. Ovviamente la necessaria tensione verso questo obiettivo deve essere calato nelle circostanze concrete del settore nel quale un’impresa opera, declinandola nella realtà nella quale si trova ad operare.

 

Ora: se è vero ciò che ha affermato Benedetto XVI l’economia non è autosufficiente, cioè è vero che non si fa da sé, al contrario di quanti ancora oggi credono alla favola della “mano invisibile” o, addirittura della “magia” (termine usato su Il Sole 24Ore del 22 aprile da Alberto Mingardi, quando ha scritto che «il bello, come sempre nel mercato, è che questa complessa forma di cooperazione fra esseri umani non ha bisogno di un progetto solidarista per compiersi o per essere regolata: le basta l’interesse particolare, frammentato, che si unisce agli altri in un mosaico più vasto») capace di regolare i rapporti economici tra gli uomini.

 

Questa “magia”, nei mercati finanziari, prende la forma di formule matematiche che interagiscono tra di loro stabilendo quando, cosa e a che prezzo scambiare titoli, deresponsabilizzando le persone ed esaurendo in sé, nella loro “attività” e nel loro “funzionamento”, la nozione di “mercato”. Quelle formule matematiche sono utili, ma non sono esaustive. Vanno usate (devono essere usate), ma sarebbe un tragico errore ritenere che esse siano il mercato. Il mercato, in quanto luogo dell’umano, infatti, non “funziona”, ma “vive”.