Un recente sondaggio Ipsos richiesto dal sito internazionale Internet Généalogie.com del marzo 2010 ci ha offerto dei dati molto interessanti. Secondo questo studio, realizzato su un campione di 1033 persone dai 16 ai 64 anni, un 65% dei minori di 35 anni avrebbero intrapreso delle inchieste per la scoperta di notizie sui suoi antenati. Secondo lo stesso studio, soltanto un 21% di tutti gli inchiestati (comprese tutte le età) sarebbero completamente indifferenti alle proprie origini. D’altra parte, secondo dati della Fédération Française de Généalogie, più di 300mila persone sarebbero affiliate ad associazioni specializzate nelle ricerche genealogiche.



Un ultimo dato riportato da Le Figaro: il 55% dei francesi fanno queste ricerche servendosi esclusivamente di internet. Questi dati, tenendo conto della specificità culturale e storica del caso francese, dovrebbero porci tante domande. Che ciò accada in Francia, culla della rivoluzione sessuale del ’68 e madrepatria del femminismo contemporaneo alla Beauvoir, non dovrebbe essere un caso.



La seconda rivoluzione dell’individualismo moderno

Se possiamo individuare come la prima rivoluzione individualista moderna quella compiuta dalla Rivoluzione francese, anche se già suggerita socialmente in tutto il Settecento e radicata intellettualmente nei due secoli precedenti, possiamo, a sua volta, riconoscere nella rivoluzione sessuale del ’68 un secondo passaggio di questa malattia individualistica moderna. In effetti, e d’accordo con il sociologo della famiglia francese Yvonne Knibiehler «la rivoluzione giovanile del ’68 non è che desiderio di un’emancipazione completa e totale del individuo» (Mai ’68, crise de la famille ou conflit de génération? Conférence 6 Mai 2008).



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 Liberati dalle catene di un potere come quello dell’Antico Regime nel 1789, ragionavano allo stesso modo gli intellettuali del ’68: mancava solo di liberarsi da quell’ultimo legame che sarebbe quello della famiglia e, più acutamente, quello della sessualità. Abbiamo visto compiersi così le paure annunciate da Tocqueville nel 1840: «La società democratica – diceva profeticamente – non solo fa dimenticare ad ogni uomo i suoi antenati, ma gli nasconde anche i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; lo porta costante ed unicamente verso se stesso e finisce per rinchiuderlo nella solitudine del suo proprio cuore» (De la démocratie en Amérique).

 

Compiuta quella premonizione da una generazione che adesso potremmo situare approssimativamente tra i 55 e i 70 anni, i dati offerti dall’inchiesta citata ci mostrano una generazione di individui, quella dei figli della precedente, stranieri a se stessi e persi nella solitudine del proprio cuore. Ma questa generazione non si arrende, proprio perché quel desiderio di appartenenza che le teorie sessantottine hanno cercato di demolire definitivamente  è radicato nelle profondità di ognuno di noi. Strano paradosso: una generazione libera come mai, svincolata come mai prima nella storia, che cerca disperatamente di vincolarsi di nuovo o, almeno, di conoscere quei vincoli che gli sono stati portati via.

Internet e il by-pass generazionale

Che, come abbiamo detto, il 55% delle ricerche riguardanti le questioni genealogiche siano effettuate su internet testimonia un vuoto nella catena della memoria familiare al quale  in nessun caso potranno supplire gli archivi. Se da una parte è certamente importante che tutti i dati riguardanti gli aspetti genealogici siano disponibili a chi volesse servirsi di loro (ed in questo senso il governo francese è esemplare nella facilitazione di tali inchieste), dall’altra è insufficiente. La «riappropriazione della memoria familiare» intesa, secondo il sociologo francese Serge Guerin, come la «possibilità di una corretta iscrizione nel proprio tempo» (Le Figaro, 3 maggio 2010) non può avvenire che tramite la testimonianza dei protagonisti di tale storia, cioè, gli antenati contemporanei.

 

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La generazione presente, figlia di una generazione di genitori che ha abdicato al proprio ruolo mettendosi allo stesso livello dei figli con quel complesso di père copain e mère copine (“genitori amici”) fortemente denunciato da sociologi come Evelyne Sullerot, ha creato un vuoto mnemonico che solo i nonni, in certi casi, sono riusciti a riempire. Sarebbe interessante conoscere la percentuale di memoria familiare che i giovani di oggi attribuiscono ai nonni e quale ai genitori. Ma, sarà un caso che la proliferazione sproporzionata di residence per anziani abbia avuto luogo proprio negli anni immediatamente seguenti alla rivoluzione del ’68? Bisognerebbe, certamente, chiedersi sul mutamento del ruolo sociale di queste istituzioni.

 

Quel luogo umano che è la famiglia, espressione primaria della sete di appartenenza che testimoniano i dati dell’inchiesta, non può essere supplito da cifre consultate in internet o altrove, importanti ma sempre fredde, ma deve essere ricostruito pazientemente nella speranza che le generazioni future possano vivere la memoria degli antenati nel rapporto presente con i genitori. La ferita sociale della rivoluzione sessuale del ’68 è grande, e la frattura generazionale, probabilmente, la più lacerante che abbia mai vissuto la società occidentale. E, sebbene la ricostruzione di questi luoghi sarà lenta, solo la ricreazione paziente del tessuto familiare permetterà ai giovani di domani sentirsi raccontare la storia delle proprie origini intorno ad una tazza di caffè e davanti a qualcuno, e non più di fronte ad uno schermo e nella amara solitudine di un click preconizzata dal genio profetico di Tocqueville. 

 

(David Blázquez)