Pubblichiamo il seguito di un precedente articolo di Alberto Strumia, Da Godel a Benedetto XVI, così la logica smonta il relativismo, dedicato al tema della ricerca di un fondamento oggettivo del sapere matematico, compiuta da uno dei più grandi logici di tutti i tempi, Kurt Gödel (1906-1978).
Ai nostri giorni occorre mettere a punto una razionalità capace di elaborare una “teoria dei fondamenti” e una “teoria della conoscenza” che dia spessore alla verità oggettiva, interrogandosi sul «se e come la verità possa tornare ad essere “scientifica”» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, p. 201). Non è più un problema da teologi e da filosofi, ma da scienziati.
Vale la pena almeno accennare a come internamente al percorso storico e logico della matematica stessa sia venuta maturando questa esigenza di ricerca di un suo fondamento oggettivo universale, motivato da una “irrinunciabilità logica”. Si tratta di un percorso compiuto dalla matematica nell’arco di circa venticinque secoli: un percorso che va dall’“esperienza” del mondo “reale” al mondo “mentale”, ad una “logica” espressa con un formalismo totalmente distaccato dalla realtà; accompagnato da uno staccarsi da ogni “equivocità” e “analogia”, proprie del linguaggio comune, per tendere alla più totale e rigorosa “univocità” del linguaggio simbolico formalizzato.
Sommariamente possiamo dire che la matematica nasce dalle esperienze, in certo modo elementari, del contare (che ha condotto all’aritmetica con i suoi sviluppi) e del misurare (con la geometria, a partire dalla misura dei terreni come suggerisce l’etimologia della parola stessa); si distacca progressivamente dall’esperienza del mondo fisico reale spostandosi sempre più sul piano della logica, nel mondo mentale, coinvolgendo via via anche la creatività di quanti l’hanno elaborata. Agli assiomi e quindi all’intero sistema assiomatico non si richiede di essere “veri”, di fornire una teoria rispondente alla realtà “fisica”, ma semplicemente di essere non contraddittori, cioè “coerenti”.
Tutto prosegue senza seri problemi in questo progressivo viaggio di andata dal mondo reale a quello mentale, dall’esperienza alla logica, fino a quando non si giunge alla teoria degli insiemi di Cantor e all’ambizioso quanto conseguente “programma” di Hilbert (1862-1943) di dimostrare la completezza e la coerenza dell’intero sistema assiomatico che regge la matematica. Dove “completezza” significa che ogni enunciato che può essere formulato, rispettando le regole, con il linguaggio simbolico del sistema assiomatico deve poter essere dimostrato (cioè dedotto dagli assiomi), oppure deve essere dimostrato il suo contraddittorio.
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Con la teoria degli insiemi si incominciano a scoprire, un po’ alla volta, una serie di paradossi che sembrano minare seriamente questa, per altro affascinante, idea di ampliare l’oggetto della matematica dal solo campo dei numeri e del calcolo simbolico al più vasto mondo delle collezioni di oggetti di qualsiasi natura (insiemi e classi) mettendo a punto una sorta di “ontologia” simbolica per queste entità. Con i teoremi di Gödel, (1) di incompletezza e (2) sulla indecidibilità delle coerenza viene dimostrata l’esistenza di proposizioni formalmente “indecidibili” all’interno di un sistema assiomatico sufficientemente complesso come quello dei Principia Mathetatica di Russell e Whitehead. Un risultato che sarà esteso successivamente a tutti linguaggi in cui si possano formulare enunciati autoreferenziali e che sembra comportare un inevitabile “regresso all’infinito”.
Da che cosa dipende l’insorgere di questi paradossi e dell’indecidibilità? È possibile superarli e come? Russell arrivò a rispondere alla prima domanda con la sua “teoria dei tipi” e Gödel, in una maniera ancora più semplice ed elegante, con la distinzione tra “classi proprie” e “classi improprie”. Senza esserne consapevoli avevano riscoperto nel contesto della moderna teoria assiomatica una forma di quella che per Aristotele e Tommaso era l’“analogia dell’ente” (analogia entis).
Alla seconda domanda sulla questione della decidibilità sembra che i matematici stiano arrivando in tempi ancora più vicini a noi tornando a rivolgersi alla realtà extramentale alla quale si attinge decidendo mediante l’“esperienza”. Alcuni tra loro, infatti, hanno notato come «i paradossi dell’autoriferimento sono noti da millenni. I teoremi di Gödel ci costringono a vederne il loro lato positivo, mostrandoci che la contraddizione nasce solo se ci si appiattisce ad un unico [univocità] livello di astrazione» (G. Sambin, “Incompletezza costruttiva”, in G. Lolli, U. Pagallo, La complessità di Gödel, Giappichielli Editore, Torino 2008, p. 125-142). E anche: «A mio giudizio […] i moderni risultati sull’incompletezza […] spingono nella direzione di una prospettiva “quasi empirica” della matematica» (G.J. Chatin, “L’incompletezza è un problema serio?”, in Lolli/Pagallo, p. 68).
Per ovvi motivi non è il caso di entrare qui nei dettagli tecnici, ma quanto detto dovrebbe essere sufficiente a mostrare che si tratta di un problema che nasce dall’interno della scienza come un problema scientifico. Un problema che riscopre in chiave logico-matematica qualcosa che era già bene noto ai greci e ai medievali: quello della “non univocità dell’ente”.
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Joseph Bochenski (1902-1995), logico e storico della logica del XX secolo, ha notato come l’impossibilità, rilevata da Aristotele, di parlare dell’ente come un “genere” [insieme] universale univocamente definito, senza incorrere in una contraddizione, si ricolleghi proprio a quello che noi oggi conosciamo come «problema della classe universale. Egli [Aristotele] lo risolse con una brillante intuizione, sebbene, come ora sappiamo, con l’aiuto di una dimostrazione imperfetta. Il passo relativo si trova nel terzo libro della Metafisica: “Non è possibile che l’essere o l’unità siano un singolo genere di oggetti” (B3, 998b 22-27)» (J.M. Bochenski, La logica formale, Einaudi, Milano 1972, vol. I, p. 77).
Tommaso d’Aquino, commentando Aristotele, rilevava che gli antichi filosofi «cadevano in errore, perché utilizzavano la nozione di ente come se corrispondesse ad una unica definizione e ad una sola natura, come fosse la natura di un unico genere; ma questo è impossibile. Infatti ente non è un genere, ma si dice di realtà diverse secondo accezioni diversificate» (Commento alla Metafisica di Aristotele, Libro I, lettura. ix, n. 6).
Con il senno di poi, si può dire che l’analogia dell’ente è stata intravista da Gödel quando ha scoperto la necessità di distinguere tra classi “proprie” e “improprie”, e da Russell con la teoria dei “tipi”, grazie al fatto che le “classi” e gli “insiemi” sono un “caso particolare di ente”, che si presenta come una collezione di oggetti. Ma questo loro carattere di enti particolari è sufficiente a far emergere la diversificazione dei loro “modi di essere” (definiti), per evitare contraddizioni.
Ai nostri giorni viene così ad aprirsi la strada in vista del passaggio da una “teoria degli insiemi” a una più generale “teoria degli enti”: si tratta di una teoria dei fondamenti logici e ontologici delle scienze, talvolta chiamata “ontologia formale”. Non è irrilevante notare come utilizzando l’analogia i medievali avevano messo a punto le loro dimostrazioni dell’esistenza di Dio (come le cinque vie di san Tommaso d’Aquino e altre prove ancora) e lo stesso Gödel ha formalizzato la prova ontologica di sant’Anselmo.
A conclusione di questo tracciato vorrei evidenziare come quanto abbiamo detto richiami alla mente la sfida che fu lanciata già da Giovanni Paolo II alla fine degli anni del secondo millennio: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento» (Lettera enciclica Fides et ratio, n. 83).