L’articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola

Era una sera dei primi di giugno, come adesso: una di quelle sere chiare in cui il sole esita al momento di calare all’orizzonte, come se non volesse andarsene. Ero bambina. Era il Corpus Domini.

Sono strani i ricordi: questo è come un film, ma con solo alcune immagini nette, e il resto sfocato. Intatti invece i rumori, i canti, e gli odori. L’odore di incenso, in chiesa, nella penombra delle fiamme tremanti delle candele. I passi silenziosi dei fedeli che entravano e si genuflettevano davanti all’altare. Dalla sacrestia, in fondo, voci sommesse, trapestii mentre i preti e i chierichetti si vestivano.



Quando la processione si è avviata, era scesa la notte. Il Santissimo in alto, sporto verso la città buia, esibito come una insegna di trionfo. I chierichetti con la cotta bianca sulla veste nera e, sotto, le scarpe scalcagnate dai calci al pallone. Ci si lanciava occhiate di saluto, zitti, non osando parlare.

 

A noi bambine avevano fatto mettere il vestito della prima comunione. Io, con la gonna vaporosa e candida, mi sentivo bellissima. Avevo anche i guanti, di pizzo, bianchi; mi guardavo le mani, vanitosa e stupita. Ci incamminammo piano, dietro di noi erano in tanti. Eravamo una lunga lenta colonna che, in quel quartiere per metà borghese e per l’altra popolare, svoltava verso le case di ringhiera, sfiorate dai bombardamenti che ne avevano distrutte alcune; e come orbite vuote le rovine, nel frastuono vivo dei cortili.



Procedevamo in quella prima notte calda e da un balcone arrivava una folata struggente: gelsomini (è strano, quel profumo è un ricordo vivissimo). Noi bambini con la candela in mano che colava gocce di cera bollente. Cantavamo. Erano canti antichi. Uno diceva: «Per i miseri implora perdono/ per i deboli implora pietà».

Ci trovammo a sfilare per una via per la quale io normalmente non avevo il permesso di passare. C’erano due alberghetti malridotti, e delle donne che a tutte le ore andavano su e giù dondolando la borsetta, con le labbra sempre sgargianti di rossetto. Mia madre m’aveva detto che quelle signore non le dovevo guardare.



PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA >> QUI SOTTO

Quella sera però, così lenta scorrendo la processione, ebbi modo di guardarle da vicino; una in particolare, che seguì noi bambine con lo sguardo. S’era messa, come alcune sue compagne, un velo in testa. Ma cosa aveva negli occhi, nostalgia, o rimpianto, e di cosa? Sembrava che stesse per piangere. Mi fece, la donna che non avrei dovuto guardare, una indimenticata tenerezza.

 

Le luci delle case erano accese, le finestre spalancate, la gente affacciata ai balconi. Molte donne avevano in mano il rosario, quasi tutti si facevano al passare del Santissimo il segno della croce. In quel quartiere povero, approdo di meridionali appena sbarcati dal Sud e incalzato da ruspe vogliose di innalzare grattacieli, il Corpus Domini avanzava in una notte di fine anni ‘60 come un re vincitore e misericordioso: cui anche le donne con le labbra sgargianti sono estremamente care.

 

Senza bisogno di alcuna parola, un segno veniva trasmesso ai figli: il nostro Dio è più forte di ogni nostro peccato. (Chissà, mi chiedo a volte, quella donna; se è ancora viva, e dov’è).