Sì, è vero. Per David Aaronovitch, lo scrittore britannico Martin Amis (1949-) è «the most fully engaged writer of our age»: proprio questo ha scritto l’autorevole commentatore culturale del britannico Times in una brillante recensione di The Second Plane, pubblicata l’11 gennaio 2008. Siamo, tuttavia, sicuri che tale definizione, nella sua veste originaria, corrisponda davvero alla versione italiana che ne viene proposta sul retro di copertina de Il secondo aereo (Einaudi, 2009): «il più impegnato tra gli scrittori della nostra epoca»?
Si dirà, con il grande Totò, che di quisquilia o pinzillacchera accademica si tratta; che non può certo essere la resa di un misero avverbio a fare la differenza; che, insomma, basta intendersi. Sarà, ma per chi, come lo scrivente (e non solo professionalmente), il peso delle parole conta, il misero (?!) fully pesa, eccome se pesa, quale che sia il personale tipo e grado di ricezione dell’”impegnata” ed “impegnativa” prosa del rampollo di Kingsley Amis (1922-1995). E pesa anche la necessità di rispettarne il senso nella traduzione italiana (figuriamoci se non pesa ometterlo…), perché proprio al di sotto della superficie di tale avverbio potrebbero intravedersi tanto una concezione della letteratura, quanto il codice genetico di un’intera genia di testi.
Grazie a fully, infatti, Martin Amis non è più soltanto «il più impegnato tra gli scrittori della nostra epoca» – con il rischio che si scriva “impegnato” e si legga, conformisticamente e restrittivamente (com’è, ahimé, costume dalle nostre parti), “impegnato secondo una particolare prospettiva, ideologica, appartenenza politico-partitica, ecc.”.
Au contraire, grazie a fully, Martin Amis diviene lo scrittore “più compiutamente impegnato” del nostro tempo – quello, cioè, la cui capacità di rappresentazione si impegna, appunto, più estesamente ed integralmente sui più diversi, imprevedibili e fascinosi territori della realtà. È questa una concezione onnicomprensiva e onnivora della letteratura che non sottrae nulla alla prassi creativa nel nome di (pre-)requisiti e/o (pre-)giudizi ideologici, culturali, estetici, ecc..
PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO, CLICCA >> QUI SOTTO
Di tutto le concede di occuparsi, ovunque la lascia infiltrarsi, sempre convinta che, come ha scritto Amis ne Il secondo aereo, «la letteratura – l’insieme delle opere scritte – è da sempre il più tenace candidato alla trasformazione in oggetto di culto, in parte perché include con noncuranza la Bibbia e tutti gli altri testi sacri. Ha anche un vantaggio rispetto alle fedi convenzionali nel senso che, alla fine, offre qualcosa di tangibile da venerare: qualcosa di illimitato, bellissimo e divinamente ingegnoso».
Così “divinamente ingegnoso” – aggiungerei – che si potrebbero sfidare le granitiche convinzioni antireligiose di Amis proprio su questo stesso terreno poetico e programmatico, accostandolo al folgorante distico di un autore che adottò la stessa “prospettiva totale” a partire da un fondamento oltremodo differente: «solo una cosa è necessaria – tutto – il resto è vanità di vanità» (G. K. Chesterton, Ecclesiastes).
Martin Amis è scrittore controverso per molti tratti; quasi sempre indigesto per una certa intellighenzia liberal-left con propensione alla raccolta-di-firme (round-robinocracy), capeggiata, secondo David Aaronovitch, da Terry Eagleton; spesso disgustoso per il credente, che non riesce a confrontarsi con il senso e l’obiettivo di affermazioni come la seguente: «un’ideologia è un sistema dottrinale con un fondamento inadeguato nella realtà; una religione è un sistema dottrinale senza alcun fondamento nella realtà» (Il secondo aereo).
Tuttavia, se scopo anche della letteratura – come della vita – «non è una beatitudine privata, bensì il tutto» (Joseph Ratzinger); se è vero che è «oggetto della letteratura è la stessa condizione umana», per cui «chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letterarie, ma un conoscitore dell’essere umano» (Tzvetan Todorov); allora, particolare gratitudine si deve a Martin Amis per quella sua frequente (e non di rado crudele) inclinazione a strappare la nostra esperienza letteraria ai «sogni solipsistici a occhi aperti: per occuparsi, nel migliore dei modi, dei fatti della vita» (Il secondo aereo).