Qualche giorno fa il noto filosofo Peter Singer (alfiere delle lotte animaliste e di tutti i temi cari all’ala più radicale della cultura liberal) ha pubblicato sul sito on-line del New York Times un articolo dal titolo provocatorio: Should This Be the Last Generation? (“Dovremmo essere l’ultima generazione?”).
L’argomentazione del filosofo è, in sintesi, la seguente: spesso si pensa che sia ingiusto mettere al mondo un figlio la cui vita sarà piena di sofferenza, ad esempio, a causa di una malattia genetica. Tuttavia, non capita mai di usare come argomento a sostegno della decisione di avere un figlio il fatto che avrà probabilmente una vita felice e soddisfacente. La domanda è allora: quanto felice e soddisfacente dev’essere la vita del bambino in prospettiva, per rendere la decisione di metterlo al mondo ragionevole? E la vita media di un essere umano in una nazione civilizzata è considerabile all’altezza di questo standard?
A questo punto Singer cita Schopenhauer, il celebre filosofo tedesco secondo cui anche la vita più “felice” pensabile è ultimamente tragica perché la maggior parte dei nostri desideri resta insoddisfatta e anche in caso di soddisfazione l’insaziabilità che ci caratterizza ci farà desiderare ancora, impedendoci così di essere felici. Quindi se mettere al mondo un bambino malato è fargli un danno, questo non significa che mettere al mondo un bambino sano sia fargli un beneficio. Inoltre, aggiunge Singer, il costante aumento demografico sulla Terra affretta l’esaurimento delle risorse, prospettando un futuro certamente difficile per le generazioni future. Quindi, in base a quanto detto, mettendo al mondo figli danneggiamo certamente i bambini del futuro (costretti a vivere in un pianeta esausto) senza peraltro beneficiare nessuno (perché i nostri figli, come vuole Schopenhauer, saranno comunque infelici come ogni essere umano è destinato ad essere).
A questo punto Singer propone un esperimento di pensiero (puramente fittizio ma filosoficamente rilevante): perché non fare della nostra l’ultima generazione sulla Terra mediante una sterilizzazione di massa? In questo modo, liberi dai pensieri sulle generazioni future, potremmo semplicemente goderci il tempo che ci separa dall’estinzione sfruttando liberamente il pianeta, coscienti del fatto che l’estinzione del genere umano non sarebbe nulla di tragico: essendo la vita umana ultimamente infelice, non danneggiamo nessuno impedendogli di venire al mondo. In fin dei conti, se ci rendiamo conto di questo, che problema c’è a immaginarsi una Terra senza uomini?
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A questo punto Singer propone un esperimento di pensiero (puramente fittizio ma filosoficamente rilevante): perché non fare della nostra l’ultima generazione sulla Terra mediante una sterilizzazione di massa? In questo modo, liberi dai pensieri sulle generazioni future, potremmo semplicemente goderci il tempo che ci separa dall’estinzione sfruttando liberamente il pianeta, coscienti del fatto che l’estinzione del genere umano non sarebbe nulla di tragico: essendo la vita umana ultimamente infelice, non danneggiamo nessuno impedendogli di venire al mondo. In fin dei conti, se ci rendiamo conto di questo, che problema c’è a immaginarsi una Terra senza uomini?
Vorrei menzionare due punti che rendono l’argomento di Singer (pur lucido, chiaro e provocatorio come la filosofia dovrebbe essere) quanto meno problematico.
Il primo. La conseguenza più logica da trarre dalla sua visione della vita umana non è la sterilizzazione di massa seguita da un party fino all’estinzione ma, come Schopenhauer aveva capito, il suicidio o una drammatica ascesi per eliminare quel desiderio insaziabile che ci caratterizza. Se la vita è ultimamente negatività e insoddisfazione il punto non è estinguere quella futura ma quella presente: se vi è invece della (pur macabra) positività almeno nello scenario prospettato da Singer della sterilizzazione di massa seguita da una festosa marcia verso l’estinzione, allora facendo della nostra generazione l’ultima stiamo privando la prossima generazione precisamente dell’unica cosa che Singer sembra caratterizzare in termini positivi: fare della propria generazione l’ultima.
Seguendo Singer, che diritto avremmo di privare la prossima generazione del gusto/diritto di essere l’ultima? E la prossima che diritto avrebbe di privarne quella successiva? E così via all’infinito. È vero che la prossima generazione di fatto non esiste (ancora) ma mi sento autorizzato ad usare tanto quanto Singer riferimenti a generazioni non-esistenti nell’economia del mio argomento. O non c’è nulla per cui vale la pena vivere, e allora il suicidio è la risposta più logica, o c’è, fosse anche solo il gusto di fare della propria generazione l’ultima, e allora non avremmo il diritto di precludere questo gusto ai nostri figli.
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Il secondo. Ma l’argomento schopenhaueriano rivisitato da Singer per cui la vita è ultimamente negativa e dunque mettere al mondo un figlio non è rendergli un buon servizio, sta davvero in piedi? Io non credo. Il punto è che ciò che rende la vita grande e appassionante non è la sommatoria dei nostri desideri soddisfatti o frustrati, ma l’accadere imprevisto di fatti, persone, circostanze che corrispondono inaspettatamente alle esigenze più profonde del nostro io, quelle che don Luigi Giussani ha sinteticamente chiamato “cuore”. Sono convinto che ciascun uomo sulla Terra, perfino nella situazione più disagevole e misera pensabile, sarebbe in grado se interrogato di menzionare almeno un fatto, un episodio in cui ha presentito con chiarezza che la vita, la realtà, l’esserci sono ultimamente positivi (un bel paesaggio? Un innamoramento, indipendentemente da come poi è andata? Una vittoria sportiva? Ciascuno pensi per sé).
Questo presentimento può essere stato poi ricoperto e sbaragliato da circostanze avverse oppure scartato come ingenuo sentimentalismo. E se invece non fosse sentimentalismo ma il primo passo, l’occasione (colta o mancata) per intraprendere un cammino di conoscenza più ragionevole di sé e della realtà? In ogni caso quei fatti che anche solo per un istante destano un presentimento di bene per sé e per il mondo – sfidando così la nostra ragione e libertà – valgono più dei bilanci di successi e fallimenti nei quali, è vero, finiamo in rosso sia che siamo malati e sconfitti sia che siamo perfettamente sani e forti.
Mettere al mondo dei figli, dunque, non è ragionevole in base a un calcolo delle probabilità che abbiano una vita felice (in base a quali standard?) ma in base alla certezza che, come a ciascuno di noi, capiteranno loro fatti e circostanze in cui presentiranno che la realtà contiene una promessa di bene. Che cosa faranno di questo presentimento resta, come per ciascuno di noi, una sfida aperta e appassionante.