Per gentile concessione dell’autore, anticipiamo un capitolo dell’ultimo libro di David Schindler, Ordering Love, Eerdmans 2010, che uscirà prossimamente in Italia. Qui la prima parte già pubblicata sul sussidiario.
Quello che tutto ciò significa nei termini della logica del mercato libero può essere illustrato brevemente riprendendo il famoso principio espresso da Adam Smith, ne La ricchezza delle nazioni. Smith dice: «L’uomo attende invano l’aiuto dei suoi fratelli uomini soltanto per benevolenza. Non è per la benevolenza del macellaio, del birraio, o del fornaio che otteniamo la nostra cena, ma per il loro interesse proprio. Noi parliamo non alla loro umanità, ma al loro interesse personale, e non parliamo a loro delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi».
Prima di tutto Smith ha ragione ad insistere che ciò che lui chiama benevolenza da sola non può generare interamente l’attività economica né alcuna attività umana correttamente intesa. Ciò che spesso si definisce “altruismo” non rende ragione della logica della vita umana. La stessa idea di un sé, con il suo presupposto della consistenza in quanto sé, implica un interesse proprio o un amor proprio.
Questo porta al mio secondo punto. Smith in questo passo esprime una visione riduttiva dell’interesse proprio, o amor proprio. Come ho detto sopra, ciò che io amo più fondamentalmente, ciò che mi interessa a livello più profondo, anche se soltanto implicitamente, è il mio sé come partecipante della donazione di Dio e degli altri. Il mio desiderio più profondo si rivolge indietro verso il mio sé e contemporaneamente è ordinato verso l’amore generoso incentrato in altri.
L’argomento di Smith presuppone una separazione dualistica dell’amore proprio e dell’amore altro-centrico. Amore proprio si rivolge verso se stesso in modo che l’altro possa essere concepito soltanto, in primo luogo, come uno strumento. L’amore altro-centrico, dall’altra parte, diventa quindi supererogatorio e più o meno arbitrario: un’attività ulteriore, da fare privatamente, se uno vuole, per esempio se uno è un fedele cristiano. In ogni caso non è un’attività per la quale il sé umano è fatto, originalmente costituito nel suo desiderio in quanto sé; un attività che appartiene intrinsecamente alla soddisfazione di ogni essere umano.
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La mia visione di questa questione, al contrario di quella di Smith, segue una tradizione di pensiero recentemente articolata nell’enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est: l’amor proprio e l’amore altro-centrico sono uniti nella loro distinzione, in modo che il sé ama se stesso veramente in quanto sé, soltanto dentro il suo amore che è ordinato verso gli altri e incentrato in altri. Il sé ama davvero se stesso, ma solo conoscendosi in quanto da e per altri, anche quando questa conoscenza non è riflessiva o esplicita.
Il senso riduttivo di Smith non viene compreso adeguatamente neanche quando si insiste, come molti fanno in sua difesa, sul fatto che lui intenda la reciprocità come una componente dell’interesse proprio, rettamente compreso. Strumentalizzare reciprocamente è comunque strumentalizzare, non è ancora generosità reciproca. Il punto è che l’interesse proprio reciproco chiede di essere trasformato in un amore reciprocamente generoso, precisamente come la condizione interna e la forma della sua realizzazione come reciproco interesse proprio. Solo una tale trasformazione, infatti, rende ragione del significato più profondo del sé, in quanto da e per altri.
Ciò che sembra una domanda arcana e tecnica qui fa tutta la differenza, in merito al giudizio che figura nel titolo del presente capitolo. La frase di Smith, come interpretata generalmente, implica che il pane, il produttore e il consumatore del pane, saranno tutti resi migliori agganciando l’interesse proprio del consumatore a quello del produttore. La logica dell’argomento di Smith contiene una dinamica che non mira a cuocere il pane migliore, ma a produrre ciò che sembra essere il miglior pane, in un modo che strumentalizza il significato del sé del produttore-fornaio sia del consumatore-cliente. Lo scopo del panettiere, secondo Smith, è avere un profitto. E per ottenerlo la qualità del pane è soltanto uno strumento.
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Lo scenario migliore, dunque, sarebbe quello in cui il panettiere riuscisse continuamente ad abbassare i prezzi e il tempo impiegato a produrre il pane, riducendo la qualità degli ingredienti che usa, ma mantenendo nello stesso tempo la sembianza di qualità più alta possibile. Non c’è nulla nella logica dell’argomentare di Smith che richieda che il panettiere faccia pane che sia intrinsecamente della qualità più alta, proprio per essere buono. Il pane, secondo Smith, trova il suo valore strettamente in quanto è uno strumento verso un fine. Gli strumenti hanno, per definizione, il proprio valore nel loro fine. La qualità del pane, tutte le “virtù” che sarebbero comprese nella sua produzione e commercializzazione sono strumenti del profitto, che solo è il fine di questa attività.
Da notare che il mio argomento non vuole negare il profitto legittimo né l’utilità reciproca nel processo del realizzare profitti. Vuole insistere semplicemente sul fatto che il profitto e l’utilità siano visti come caratteristiche intrinseche e quindi subordinate al servizio all’altro nella sua interezza. Dobbiamo richiamare qui la comprensione “classica” dell’essere umano, in cui la bontà inerente all’essere nella sua datità naturale include la sua “utilità” agli altri esseri: è nell’essenza stessa di ciò che è buono condividere se stesso (bonum est diffusivum sui).
Ancora, il servizio all’altro nella sua interezza non è da essere compreso nei termini di una perfezione astratta e utopica. Al contrario, questo servizio concepito rettamente sempre riconosce i limiti reali e materiali che segnano ogni amore generoso nel mondo finito, e anche pieno di peccato. Il punto è semplicemente che il bisogno di ordinare il profitto e l’utilità in termini di servizio generoso non può essere messa da parte nel nome di un realismo mondano ritenuto più adeguato.
(2 – continua)