Il problema della razionalità sembrerebbe uno di quegli argomenti che non esercitano più un reale interesse, giacché tutti (o quasi tutti) pensano di averlo in qualche modo già definito e risolto. A chi mai, nel dibattito culturale e politico dei nostri giorni, verrebbe ancora in mente di verificare la ragionevolezza di una posizione o di una scelta? O meglio, tutti (o quasi tutti) sembrano dare per scontato che la ragione di un argomento o di una prospettiva consista nella loro coerenza con alcuni presupposti culturali, ideologici, politici, scientifici, religiosi di partenza. Ma il problema della ragione raramente viene riaperto all’interno di quegli stessi presupposti, i quali vengono assunti come “validi” in virtù dei “valori” che li sottendono e che essi esprimono.



Ma in tal modo la razionalità finisce per essere identificata con la capacità di ottenere conseguenze efficaci a partire da posizioni (e da interessi) assunte il più delle volte in maniera pregiudiziale, e quindi con la nostra abilità nel misurare e commisurare gli effetti alle cause o nel (ri)modellare le cause rispetto agli effetti. Insomma, la razionalità sarebbe una procedura di controllo delle nostre strategie conoscitive e morali, uno strumento in mano ai soggetti (individuali ma anche pubblici, economici, politici, ideologici ecc), i quali ne fanno uso secondo i contenuti e gli scopi che essi si prefiggono di volta in volta. Basti pensare a come usiamo scontatamente – cioè senza verificarne la ragionevolezza o il significato essenziale – alcune parole fondamentali nei nostri discorsi pubblici, quali nascita e morte, vita e natura, diritto e giustizia, democrazia e mercato, liberalismo e uguaglianza, e molte altre.



Ma proprio qui si evidenzia il problema: il soggetto che detiene e usa la ragione come una sua facoltà o un suo “potere”, le darà anche l’orientamento che egli ha già in anticipo deciso di adottare. È la volontà di chi la usa, a decidere della natura della ragione, ribaltando così tutta una lunga e gloriosa storia, secondo cui è invece la natura “oggettiva” della ragione a decidere della volontà del soggetto, aprendo di fronte ad esso tutto l’orizzonte della sua domanda di significato e tracciando la traiettoria tendenzialmente infinita della sua attesa di una risposta adeguata.



Con la conseguenza che, se la ragione (come facoltà umana) o la razionalità (come caratteristica dei discorsi e delle azioni degli uomini) costituiscono il dominio della misurabilità e della produttività delle decisioni pregiudiziali, esse sono condannate a lasciare fuori di sé tutto ciò che chiamiamo il “sentimentale” o l’“emozionale”, il “vitale” o il semplicemente “naturale”, ritenuti “ovviamente” irrazionali o nel migliore dei casi a-razionali, nel duplice senso che eccedono le nostre capacità di controllo culturale e non hanno un’origine e un fine diversi dal mero accadimento naturalistico.

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Ma c’è un’altra conseguenza rilevante in questa prospettiva della ragione come procedura strategica decisa dal soggetto, ed è che essa si gioca tutta nella “delimitazione” del suo campo. Beninteso, quello dei limiti della ragione (Kant docet!) è un discorso assolutamente centrale, proprio per comprendere realisticamente la portata della nostra facoltà conoscitiva, ed evitare che essa pretenda idolatricamente di definire o afferrare ciò che oltrepassa i suoi poteri. Ma questa realistica cautela si è alla fine rovesciata nel suo contrario, e cioè nella convinzione che esista ragionevolmente, cioè veramente, solo ciò che riesce ad entrare negli schemi a priori della nostra mente, mentre ciò che li supera, se anche c’è, non potrà mai essere oggetto di una conoscenza o di una scelta razionale.

 

Il problema che si ritiene già risolto è in realtà solo evitato: quando riconosco che la realtà mi supera, che il mondo è sempre più grande dei miei schemi mentali, che i fattori in gioco sono sempre più numerosi di quanti ne conto io, che l’essere ha un senso tendenzialmente infinito, compio un atto razionale o irrazionale? La ragione funziona solo quando misura e pre-determina il mondo, oppure essa è all’opera anche quando scopre l’esistenza del “mistero”? E viceversa, questa realtà misteriosa è solo ciò che, per definizione, fuoriesce dalla ragione umana (almeno per il momento!), oppure essa può divenire in quanto tale l’oggetto di uno sguardo razionale che riconosca l’altro da sé?

 

Proprio per questo occorre riaprire – sfidando l’apparenza di ingenuità o il verdetto di impossibilità – la questione della ragione. Non si tratta tuttavia di inseguire un concetto univoco di razionalità, in cui omologare la molteplicità di prospettive e la pluralità dei metodi con cui di volta in volta la ragione si applica nei diversi campi del sapere e dell’agire. Tanto meno però si tratta di ripetere il vecchio auspicio di un’integrazione tra la razionalità “strumentale” della tecno-scienza e la ragione “meditante” della filosofia o della poesia. Piuttosto si tratta di verificare se vi sia una “natura” o una “costituzione” della ragione umana che permetta le sue molteplici e diversificate applicazioni; e viceversa di verificare se tali applicazioni esauriscano in sé la funzione della razionalità o necessitino – proprio per funzionare – di un orizzonte più grande di riferimento.

 

L’ipotesi che intendo verificare è la seguente: la ragione si presenta come l’esperienza di un rapporto, come spazio di apertura del soggetto umano (un’apertura che ha il nome di “io”) in cui la realtà emerge come un “dato”. Prima di ogni soggettivismo e prima di ogni oggettivismo, i “due” – l’io e la realtà – non solo entrano in rapporto tra loro, ma sono essi stessi un rapporto. Da questo punto di vista ogni nostro limite, l’inevitabile delimitazione nell’uso della nostra ragione, può essere inteso anche come un confine, una soglia o un luogo di apertura ad una “ragione” (o logos) più grande della nostra stessa facoltà. La ragione è dunque una facoltà conoscitiva e valutativa, ma insieme – e indistricabilmente – è un principio di intelligibilità ossia un senso del mondo, direi quasi una dimensione costitutiva del reale.

 

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Proverò a documentare questa ipotesi attraverso quattro casi a mio parere emblematici. Si tratta di “figure” in cui è all’opera una vera e propria esperienza di pensiero, e che possiamo ritenere squisitamente “filosofiche”, sebbene non si tratti di filosofi professionali, ma di individualità creative che cercano di rendersi conto e di comunicare la ragionevolezza del loro rapporto all’essere. 

 

Il primo caso è quello del pittore Paul Cézanne, il quale lavorando sulla nostra capacità di “percepire” visivamente la natura (e di renderla così in pittura), giunge alla scoperta che il nostro sguardo, la nostra stessa visione della realtà che ci circonda, costituisce il modo primario in cui la realtà giunge alla sua più propria “realizzazione”. Non perché la riduciamo al nostro modo di vedere, ma perché al contrario il nostro vedere coincide con il modo più proprio di darsi del mondo. 

 

Il secondo caso è quello del poeta e scrittore Thomas S. Eliot, e riguarda quella strana “modificazione” della storia che accade ogni qual volta viene creata una nuova opera letteraria, grazie alla quale tutta la tradizione precedente non solo risulta accresciuta, continuata o interrotta, ma viene completamente riformulata. Ciò che avviene con la creazione di una nuova opera d’arte avviene “contemporaneamente” a tutte le opere del passato e il senso storico si realizza esattamente nella misura in cui si scopre che il passato non “è” solo passato, ma “è” anche presente.

 

Il terzo caso è quello del compositore Igor Stravinskij, con la sua teoria della musica come l’unico dominio in cui l’uomo “realizza” il suo presente, poiché mentre in tutte le altre sue espressioni e attività egli è costretto a subire il passare irrevocabile del tempo, nell’esperienza musicale egli lo rende invece “reale” e “stabile”, nella misura in cui è capace di cogliere e di “costruire” l’ordine del presente.

 

Il quarto caso, infine, è quello del fisico Erwin Schrödinger, con le sue riflessioni riguardo al rapporto tra gli oggetti della natura, conosciuti attraverso l’indagine scientifica, e la coscienza dell’io, cioè dell’autore di tutto il complesso delle rappresentazioni che formano la scena della scienza. Mentre infatti quest’ultima ha progressivamente “oggettivato” il mondo, essa si rivela sempre più incapace di conoscere il “soggetto” di tale oggettivazione. E così l’io resta come un punto di fuga, senza del quale tutta la scienza non sarebbe possibile, ma che la scienza stessa non potrà mai ridurre totalmente alle sue spiegazioni.

 

Che è poi l’enigma affascinante della razionalità umana: una cosa totalmente “nostra” che non possiamo però mai ridurre a noi stessi.