Dovevano dichiarare Porzûs monumento nazionale. Si tratta del luogo in cui, per mano comunista, il 7 febbraio del 1945 vennero torturati e uccisi 18 patrioti delle formazioni antifasciste Osoppo. Era da anni che si aspettava questo riconoscimento ufficiale della Repubblica. Ma un pasticciaccio di alcuni funzionari ha rovinato tutto. E alla fine Bondi ha dovuto ringraziare «la stampa che ha sollevato la questione» della cattiva ricostruzione di quanto accaduto sul confine orientale nel 1945.
Con un comunicato pubblicato sul sito del Ministero, infatti, si informa che sarà «revocato il provvedimento della direzione regionale del Friuli Venezia Giulia, in quanto le motivazioni storiche attraverso cui la Malga di Porzûs è stata riconosciuta come bene di interesse culturale non appaiono condivisibili». Non solo. Bondi rende anche noto che si «incaricherà uno storico di stendere una nuova relazione più aderente ai risultati della recente storiografia».
Viene da chiedersi: non poteva farlo prima? Occorreva che dei funzionari – con scarso senso delle istituzioni, oltreché della storia – facessero un’enorme figuraccia copiando e incollando da Wikipedia come qualunque liceale svogliato? È successo infatti che, al fine di avviare le procedure per dichiarare la Malga di Porzûs monumento nazionale, è apparso un decreto della Direzione regionale friulana dei beni culturali in cui si definisce la tragedia del ‘45 «uno degli episodi più controversi della Resistenza italiana». Ha scritto Simoncelli su Avvenire del 26 maggio: «Se c’è una vicenda della Resistenza assai poco “controversa” è la strage a Porzûs».
E se contro i fatti non valgono le illazioni, è un dato che nel pomeriggio di quel 7 febbraio, sotto il comando di Giacca (Mario Toffanin), un centinaio tra comunisti di tre battaglioni di Gap e sloveni dell’esercito di liberazione di Tito, appartenenti al IX Korpus, torturano e uccidono il comandante osovano Bolla (Francesco De Gregori), il delegato politico del Pd’A Enea (Gastone Valente), il giovane Giovanni Comin ed Elda Turchetti, una donna che Radio Londra aveva denunciato come spia e la Iª Brigata Osoppo aveva ritenuto opportuno trattenere alle malghe per accertamenti.
Gli altri quindici vengono fatti prigionieri e condotti nel Bosco Romagno, dove vengono sommariamente uccisi, eccetto due che, presumibilmente, decidono di passare coi gappisti. La Relazione osovana con cui viene denunciato l’eccidio ai vertici della Resistenza precisa: «Bolla ed Enea dopo essere stati legati e sottoposti ad orribili sevizie (particolarmente visibili sul corpo del primo) furono massacrati a colpi d’arma da fuoco».
Questo episodio di violenza interna al Movimento di liberazione è stato sempre faziosamente interpretato come atto di risposta al presunto doppiogiochismo dei comandi delle Osoppo. L’intento è chiaro: minimizzare l’errore dei compagni che sbagliano. E il decreto della direzione friulana dei beni culturali ha avvallato quell’intento interpretativo.
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I funzionari ministeriali sono riusciti a ricalcare la stessa propaganda anti-osovana di sessant’anni fa, giustificando così l’eccidio: «Il rifugio dato a Elda Turchetti fu il casus belli che giustificò l’azione degli uomini di Mario Toffanin. Infatti, secondo le direttive emanate nell’ottobre 1944 dal Comando generale del Corpo volontari della Libertà del Nord Italia, ogni tentativo di trattativa con i nazifascisti era da considerare tradimento e quindi, essendo in tempo di guerra, da punire con la condanna a morte per fucilazione».
Dalla vasta documentazione disponibile non emerge alcun tentativo di trattativa con i nazifascisti e i numerosi processi sulla strage hanno definitivamente sgomberato il campo da ogni sospetto. Non solo. Molti testimoni ritengono ancora oggi che Elda Turchetti abbia rappresentato un’esca inviata appositamente per creare il pretesto.
A ogni modo, ciò di cui normalmente non si vuole tenere conto è il contesto in cui la strage di Porzûs matura. Il Friuli, la Venezia Giulia e la Dalmazia erano terre attraversate da un doppio confine: territoriale e ideologico. L’obiettivo dei partigiani comunisti era il raggiungimento del socialismo reale. Ogni mezzo era buono per ottenerlo. Anche assecondare le mire titine, sottraendo il Friuli alla sfera di influenza angloamericana e mettendo gli Alleati di fronte al fatto compiuto, una volta finita la guerra. Questa la linea di tutto il Partito comunista italiano.
Del resto lo dimostra lo stesso storico del Pci, Paolo Spriano, pubblicando le istruzioni che Palmiro Togliatti invia a Vincenzo Bianco (Vittorio), delegato presso il Comitato Centrale del Pc sloveno. Il documento, spedito il 19 ottobre 1944, recita: «Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito».
E più avanti: «Questo vuol dire che i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono a favore dell’imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli» [].
Nella visione ideologica dei comunisti non poteva esistere una posizione terza: o con i nazifascisti o con l’Unione Sovietica che, in quanto anticapitalista, è l’unica vera portabandiera dell’antifascismo. Da qui l’ostilità nei confronti delle formazioni Osoppo che rifiutano di combattere al fianco delle Brigate Garibaldi sotto le insegne dell’esercito di liberazione jugoslavo.
[1] P. Spriano, Storia del partito comunista italiano. Vol. V. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Giulio Einaudi ed., Torino, 1975, p. 437.
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Gli uomini delle Osoppo pagano la loro scelta con un susseguirsi di attacchi e dileggi da parte comunista, fino a rapine e intimidazioni. Di tutto ciò rimane traccia nella fitta corrispondenza proprio del comandante Bolla, il quale più volte – dall’ottobre ‘44 fino a pochi giorni prima della sua barbara uccisione – denuncia ai vertici della Resistenza veneta i soprusi subiti a causa della non volontà di affrontare a livello politico la cosiddetta “questione slovena”.
Alla vicenda di Porzûs è legato il mito storiografico di un Partito comunista portabandiera della causa di liberazione nazionale. Ma come si potrebbe sostenere ancora tale tesi, qualora si ammettesse che il Pci anteponeva alla difesa dei confini patri del 1918 interessi di natura ideologica?
Una cosa è certa: chi oggi si reca a Porzûs osserva che il luogo dove gli osovani hanno versato il sangue delimita la linea di confine, a presidio dell’italianità del territorio. Chi ha vissuto in libertà al di qua di quella linea lo deve certo a Bolla e i suoi uomini.
(Matteo Forte)