In un periodo in cui il dibattito pubblico è dominato da legge sulle intercettazioni, caccia ai disonesti, proteste dei magistrati, è tornato d’attualità un intervento di Giuseppe De Rita, sociologo e presidente del Cnel, che sul Corriere aveva dedicato qualche tempo fa un articolo al rapporto tra reato e peccato. Il sussidiario è tornato con lui sull’argomento.



De Rita, sul Corriere lei ha parlato di «caduta verticale del reato». È in crisi l’etica pubblica o la morale privata?

È in crisi l’etica pubblica prima di tutto. Essa è stata coltivata innanzitutto da una dimensione di appartenenza statuale: delega lo stato alla regolazione dei conflitti e dei comportamenti. Ma quando la dimensione statuale si sgretola – per la globalizzazione, per la progressiva autoaffermazione dei territori, per l’esaltazione dell’autonomia dei singoli – essa non riesce più a regolare i comportamenti e non ci sono «santi» che tengano.



E nella sfera della morale individuale?

Che a causa del processo descritto entri in crisi anche la morale a livello personale, questo è probabilmente vero. La morale individuale, possiamo dire noi cattolici, viene data dai precetti, cioè è codificata in alcune indicazioni che provengono dall’alto: i comandamenti dicono «vi dovete comportare così». È un fatto che la caduta della prescrizione normativa statuale è andata di pari passo con una crisi dell’indicazione di coscienza qual è quella data dalla Chiesa. Questa caduta ha creato uno spaesamento morale del singolo.

Come spiega questo stato di disgregazione?



Non si riesce più a individuare quei capisaldi di ispirazione morale, comportamentale ed etica che possono fare da riferimento ai singoli. Siamo tutti in una situazione di difficoltà: l’etica pubblica ha terminato il suo momento crescente, durato dal Settecento ad oggi, e l’etica personale soffre del fatto che le sorgenti dei precetti si sono man mano inaridite. Buona parte della morale personale di chi viveva nei piccoli paesi italiani era data da un messaggio della Chiesa, del parroco, non da una morale «interna», interiorizzata e fatta propria.

Quali sono le cause di questa crisi?

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La società contemporanea è innanzitutto una società della soggettività. Gli ultimi 50 anni sono gli anni della soggettività, cioè gli anni in cui il singolo ha ritenuto «più morale» rivolgersi alla propria coscienza che obbedire a una norma che proviene dal di fuori di lui. Questa predominanza della soggettività ha messo in crisi i precetti di chi non ha rielaborato in modo critico le proprie convinzioni morali. Da qui il conflitto tra interiorità e precetti.

 

E siamo tuttora nel pieno di questo scontro irrisolto?

 

Mi pare evidente. Tutti i problemi che stiamo affrontando – dall’eutanasia alle frontiere biologiche della vita, per esempio – sono centrati sul contrasto tra il primato della coscienza individuale – “sono io che ho il diritto di decidere” – e un primato della norma, della legge, della consuetudine, dello stato. L’«aumento di soggettività» che c’è stato in questo 50 anni di storia italiana è stato quello che ne ha condizionato non solo la dimensione sociale, pensiamo all’aborto e al divorzio, ma anche l’economia: un paese con 5 milioni e mezzo di imprenditori, cioè un imprenditore ogni 12 persone, è un paese in cui la soggettività è entrata pure nell’impresa, nella voglia di far da solo, di essere padrone, di recitare se stesso e non altri nella propria attività economica.

 

La Cei parla di emergenza educativa.

 

C’è ed è grave. Stiamo assistendo ad una evaporazione della dimensione culturale individuale verso uno «spappolamento» primitivo, di diffusione di miti e di soggezione agli eventi. La gente appare sempre più priva di un approccio critico, incapace di ragionare. E il problema viene puntualmente spostato sul piano delle scuole da realizzare, degli investimenti, dei laureati. Per carità. Servirebbe un vero e proprio «riarmo» intellettuale.

 

Lei ha parlato di magistrati che finiscono per occuparsi di peccati individuali, di una «bulimia normativa che rincorre e codifica un crescente numero di fattispecie di reato». Tutto è divenuto reato e il reato ora «sostituisce il peccato come regola dei comportamenti». La giustizia ha perso la bussola?

 

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Il conflitto di oggi tra politica e giurisdizione è tutto interno alla crisi della giurisdizione, che oggi appare gonfiata a dismisura. Tutto è reato, ma se tutto e reato più nulla è reato. A questo si accompagna l’enfasi sulla prescrizione. Che non risolve, al massimo nasconde il problema generale del rapporto tra moralità e reato, che resta intatto.

 

Un effetto della confusione che lei denuncia tra reato e peccato (definisce i magistrati «sacerdoti del reato») è il possibile ritorno ad un certo fondamentalismo. Perché e in che senso?

 

Perché se il magistrato non ha la possibilità di gestire il reato mediante la giurisdizione – per vari motivi: perché la giurisdizione scoppia, perché definire il reato è sempre più difficile, perché interviene la prescrizione, ecc. – allora cosa fa? O passa le carte, o fa filtrare le intercettazioni al giornale il quale puntualmente dichiara di fronte al popolo che il signor Tal dei tali ha peccato. È il meccanismo della gogna mediatica che ben conosciamo. “Non posso perseguirne il reato perché so che tanto quello se la cava lo stesso; intanto addito il peccatore”. Allora il neo-fondamentalismo non è la jihad islamica, ma questo moralismo di bassa lega che diffonde un giudizio etico improntato al peccato. Una scomunica pubblica, la cui sorte inevitabile è di venire cavalcata politicamente da qualcuno.