I tempi che viviamo in Italia (crisi, accenni di ripresa, la necessità di attuare risparmi e compiere sacrifici) ci mostrano ogni giorno di più l’urgenza di perseguire il bene comune. Ho assistito a un dialogo tra un manager e un imprenditore torinesi di cui ho grande stima e provo a riferirvene alcuni contenuti. Vi dirò solo alla fine chi sono.
Dice il manager: «Il bene comune cresce esponenzialmente rispetto al crescere degli interessi individuali». Dice l’imprenditore: «L’interesse, ecco il nodo: devo operare per l’interesse di chi lavora con me e così facendo ne ho un tornaconto individuale. Non è una concessione – continua l’imprenditore – al contrario è una furbata. Più faccio star bene chi lavora con me, più lo faccio sentir parte del mio progetto, più riesco a motivarlo, più ottengo; non io personalmente subito, è ovvio, ma l’azienda in termini di competitività e di capacità di svilupparsi e di guadagnare soldi. Di conseguenza, eccomi accontentato anche su ciò che alla fine mi sta più a cuore: il mio interesse personale».
«Il bene comune – aggiunge il manager – si costruisce attraverso una sinergia sociale dove 1+1 è maggiore di due, dove le utilità di x e y sono moltiplicate e non semplicemente sommate. Applichiamo questo ragionamento al numero di relazioni tra gli individui che compongono un’organizzazione, quali un’azienda, un’opera no profit, una bocciofila, una comunità, un paese, una nazione eccetera, moltiplichiamo questo numero anche per le relazioni tra le diverse organizzazioni e otterremo una cifra che tende a infinito. È questa la dinamica alla base del progresso della nostra civiltà o della sua decadenza».
Cose dell’altro mondo? Teoria? Guardiamo la nostra storia: «Nel secondo dopoguerra – rileva il manager – quando ancora erano vivi i ricordi della sofferenza comune e la memoria di una prova condivisa, l’Italia ha compiuto il miracolo della sua ricostruzione. Il fattore dinamico di questo sviluppo è stato una sintesi straordinaria tra interessi individuali e bene comune, percepito come valore in sé avendo sperimentato, durante gli anni della dittatura e della guerra, gli effetti tragici della sua assenza».
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C’è un’esemplificazione paradigmatica, secondo il manager, di che cosa sia il bene comune: «L’esempio dei nostri distretti produttivi dimostra che questo sistema a rete, in cui si è contemporaneamente concorrenti e partner, è molto più resistente ai cambiamenti tecnologici e alle crisi di mercato rispetto ai singoli nodi che lo compongono. Il distretto ha una creazione di valore totale maggiore e più durevole nel tempo rispetto a quella che sarebbe originata da singole imprese che si muovessero in modo atomistico».
Invece, la crisi economico-finanziaria che non abbiamo ancora alle spalle e di cui viviamo le conseguenze è nata, dice il manager, «dall’assolutizzazione di singole utilità individuali (banche, enti finanziari e i loro top manager che hanno incassato bonus stratosferici) a spese del bene comune». «Il problema – sottolinea l’imprenditore – sta proprio in questo famoso bene comune: non fa parte della natura degli uomini sbranarsi e uccidersi, sennò non saremmo arrivati qui. La natura degli uomini è, invece, progredire. E si può progredire solo se si riesce a mettere a sistema l’intelligenza. Credo che il sentire del bene comune faccia parte del Dna degli uomini. Bisogna riuscire – aggiunge l’imprenditore – a trovare il modo di mettere al centro l’interesse collettivo come causa dell’interesse individuale. Per farmi capire meglio: l’individuo ha maggiore consapevolezza della sua individualità quando è capace di mettersi a sistema, di organizzarsi. Anche dal punto di vista esistenziale se ci definiamo uomini credo che lo facciamo perché ci riferiamo a una situazione collettiva».
Il paradosso è che la prospettiva del bene comune, nella società, in azienda, dovunque, fa a pugni con l’ossessione etica del pensiero dominante (si veda L’Ossessione etica di Graziano Tarantini su Ilsussidiario.net). Dice l’imprenditore: «Le aziende che si auto-definiscono etiche rifuggono dall’interesse personale perché lo giudicano come fonte di egoismi e di danni per gli altri e si affibbiano missioni aziendali buone. Fanno del buonismo; in realtà mettono in atto una grande presa in giro che si trasforma sul lungo anche in diminuzione della motivazione delle risorse umane. Come si può chiedere a qualcuno di essere veramente motivato a far sempre meglio e di più se gli si toglie l’aspettativa, ancorché indiretta, del beneficio personale?»
Il manager è Carlo De Matteo, direttore Business Development presso una grande utility italiana, l’imprenditore è Marco Boglione, patron di BasicNet, società titolare dei marchi Kappa, Robe di Kappa, Superga, K-Way, Jesus Jeans. E se volete saperne di più, questa discussione è contenuta nel pamphlet Contro l’Azienda Etica. Per il bene comune edito da Basic Edizioni.