Nel romanzo del Nobel per la letteratura José Saramago (1922-2010), intitolato Storia dell’assedio di Lisbona (1989), il personaggio del redattore Raimondo Silva aggiunge un “no” alla frase dove si dice che, nel XII secolo, i crociati decisero di aiutare il re del Portogallo a conquistare la città occupata dai mori. Gli avvenimenti storici si vedono, in questa maniera, artificiosamente mutati per mezzo del ribaltamento totale del loro significato, in un esercizio che vuole essere creatore di quella novità che la storia “ufficiale” non è presumibilmente in grado di dare (“la suddetta storia è sempre meno in grado di sorprendere”, afferma lo scrittore nel 1998, in un discorso tenuto alla Reale Accademia Svedese).



Senza pretendere di entrare in questa sede nell’analisi delle complesse relazioni che, nella creazione letteraria, possono stabilirsi tra la realtà e la finzione, vale la pena prendere questo episodio come esempio di quella che fu la posizione dello scrittore in quanto letterato e cittadino comunista sempre politicamente impegnato: la credenza, costantemente dichiarata, nel valore della “resistenza” individuale e collettiva ai fatti della Storia, in quanto modo supremo di compiere la libertà.



È ben visibile, nell’insieme delle sue numerose opere, dalle quali risalta senza dubbio il suo fascino per la narrativa ed il suo talento di raccontatore “orale” di storie, l’effetto di questo concetto di libertà come rifiuto e come negazione. Prima di tutto, nel tono dell’amara ironia (anche nei casi in cui scrive parodie), che predomina nei suoi romanzi, farciti di personaggi sofferenti, vittimizzati e rivoltosi o ribelli, ma anche in un tipo di costruzione narrativa sempre organizzata attorno ad una determinata tesi da difendere.

È lo stesso scrittore che si definisce uno “scrittore di idee” e che afferma: “sono un saggista che ha bisogno di scrivere romanzi perché non sa scrivere saggi”, collocandosi con precisione in quella posizione teorica ed astratta che una scrittrice come Flannery O’Connor descriverebbe come una attitudine ideologica del romanziere debole ed inesperto: la preoccupazione per le idee e le emozioni scarne, con temi e problemi di impatto sociologico, invece dell’attenzione al “tessuto dell’esistenza […], a questi dettagli concreti della vita che rendono presente il mistero della nostra posizione nella terra”.



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In questo consiste la lotta di Saramago (che lui chiama senza giri di parole “guerra”), manifestata dal punto di vista letterario ed esistenziale nel suo zelo nello sfidare ed attaccare la Chiesa, nella sua ossessione disperata e pretenziosa di sovvertire il contenuto della Bibbia e nella sua ricorrente dichiarazione di ateismo. Libri come Memoriale del Convento (1982), Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), Cecità (1995) o Caino (2009) evidenziano con particolare chiarezza il rifiuto a priori di accettare l’ipotesi che la realtà possa essere costituita da una dimensione non pienamente esplicabile dall’uomo. La ragione, intesa come capacità di spiegare, è per Saramago, la misura del proprio io, e per questo lo scrittore guarda alla vita come debitrice della propria arte, nella quale il ruolo di un narratore sempre onnisciente, onnipotente e dirigista, esplicitamente identificato con lo stesso (e chiaroveggente) autore, è quello di costruire l’unico luogo della possibile “redenzione” e dell’orientamento di una umanità cieca, meschina, ripugnante e disperatamente perduta.

 

È impossibile non vedere, nel gigantesco e molto “popolare” successo che ha incontrato la sua opera (nonostante il mal confessato tedio che la lettura delle sue opere provoca a molti), la perizia della propaganda comunista in tutta la sua portata – alla quale, si dica per inciso, la donna con cui ha vissuto dal 1988, la giornalista spagnola Pilar del Rio, ha contribuito in modo decisivo. Ma è ugualmente evidente che tutta la gloria apparente di una vita assente nella convinzione che “l’essere umano ha inventato Dio e poi gli si è reso schiavo” rivela, alla fine, l’ironia della reale schiavitù cui questa ripugnanza conduce arrendendosi al mistero, che, nonostante tutto, Saramago pare intravvedere, come attesta la sua ossessiva ripresa degli stessi temi.

 

Come abbiamo ascoltato dire recentemente dal cineasta Manoel de Oliveira a Lisbona, davanti a Papa Benedetto XVI, citando il grande oratore del XVII secolo Padre António Vieira, “la parola non è terribile”, perché “il non elimina tutta la speranza, che è l’ultima cosa che la natura ha lasciato all’uomo”, a questo uomo la cui grandezza, libertà e fecondità si nascondono nel fatto di non poter non desiderare di dire “sì” all’infinito.