È proprio vero che la comprensione della realtà economica è più facile se si mettono insieme i contributi dei filosofi e quelli degli economisti. L’intervista a Pietro Barcellona è un chiaro esempio di come si possa analizzare acutamente quanto sta succedendo nel mondo economico con strumenti non specialistici dell’economia. Condivido gran parte delle idee di Barcellona, in particolare la necessità di parlare delle persone più che delle imprese o delle istituzioni, le conseguenze (negative) della rivolta contro i padri, la necessità di un senso del lavoro e di un collante identitario e il ruolo decisivo che possono avere i gruppi di persone che superino il “modello individualistico meschino che ci distrugge”.
Provo a evidenziare un paio di aspetti sui quali nutro invece qualche dubbio. Il primo. Ritengo che in Italia ci siano ancora molti imprenditori e molti loro collaboratori che amano il lavoro, che non lavorano solo per la retribuzione, che sono mossi dal desiderio di costruire belle imprese in grado di offrire ai clienti prodotti utili e ben fatti. Girando per le varie province del Paese ho visto imprenditori emiliani commuoversi per un motore che romba a pieni regimi, imprenditori toscani presentare con emozione il loro vino, imprenditori biellesi descrivere con orgoglio la finezza dei loro tessuti, imprenditori lombardi comunicare con soddisfazione la conquista del consenso dei consumatori di varie parti del mondo, imprenditori campani presentare la loro pasta come un prodotto unico ottenuto con tecnologie d’avanguardia e manodopera specializzata. Insomma, a me pare che il quadro generale del nostro Paese sia forse un po’ meno fosco di come Barcellona lo descrive. Peraltro, lui stesso riconosce che, pur se a macchia di leopardo, esiste un tessuto di imprese che alimenta occupazione e legami sociali. E allora, quando Barcellona richiama giustamente la necessità di ripartire da piccoli gruppi di persone con il senso della comunità, si può sostenere che un po’ di questi gruppi ci sono già.
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I dati macroecomici sembrano confermare un quadro più positivo di quello descritto da Barcellona. L’Italia è tuttora la quinta potenza industriale con il 3,9% della produzione manifatturiera mondiale e dal 2000 ad oggi ha mantenuto il distacco che la separa dalla Germania, ma ha migliorato la propria posizione rispetto agli Usa e al Giappone che la precedono e rispetto alla Francia e al Regno Unito che la seguono. Fino alla vigilia della crisi l’Italia ha difeso la sua quota sull’export mondiale di manufatti e solo la Germania ha guadagnato spazi di mercato. Tutti gli altri paesi di antica industrializzazione li hanno ceduti a favore dei paesi emergenti.
Vengo al secondo dubbio. È giusto ripartire dai gruppi di persone cambiate. Ma perché i pochi o tanti gruppi di persone che lavorano con un significato possano diventare un modello per altri occorre che la politica e i media si impegnino per conoscerli, per diffondere la notizia della loro esistenza e per creare delle condizioni di contesto che li aiutino. Non si tratta di ripetere il solito ritornello che il problema sono i politici impegnati in altre attività o i giornalisti che indugiano con troppa enfasi su ciò che non va. Eppure, non si può neanche rinunciare a richiamare tutti alle loro responsabilità e, in primis, coloro che più di altri hanno il potere di influenzare i comportamenti e le opinioni. Ho già suggerito una proposta: si organizzino visite dei politici e dei giornalisti nelle aziende perché possano commuoversi per l’impegno delle persone che vi lavorano e perché questa commozione li muova all’azione.
Un ultimo commento. Come dicevo, a me pare corretta un’interpretazione antropologica del travaglio che la nostra economia sta vivendo. Vi sono tuttavia dei fenomeni macroecomici che stanno modificando il ruolo dell’Italia nell’economia mondiale e se si trovassero economisti umilmente disposti a combinare le analisi tecniche con le riflessioni di filosofi come Barcellona forse il Paese ritroverebbe più velocemente la via per una ripresa a beneficio di tutti noi.