Grandi anniversari letterari in Russia nel 2010: in novembre il centenario della morte di Tolstoj, a giugno il centenario della nascita di Aleksandr Tvardovskij, un grande poeta, molto amato dal pubblico sovietico negli anni ’40-60. In Occidente è noto (se pure lo è) forse solo per il ruolo che ebbe nel disgelo letterario nei primi anni ’60, e nel debutto di Aleksandr Solženicyn.



Questa personalità prorompente, in effetti, ha rivestito un duplice ruolo, quello di poeta popolare e quello di direttore della più grande rivista letteraria sovietica, il Novyj mir (Nuovo mondo). La sua poesia toccava due temi molto vicini al cuore russo: la guerra e la campagna. Figlio di contadini, Tvardovskij aveva saputo riportare nel verso i ritmi briosi e le immagini colorite e naif delle ballate popolari; come corrispondente di guerra, aveva saputo cantare i sacrifici e l’amor di patria della gente comune, senza la solita retorica stucchevole. Solženicyn ricorda di aver apprezzato il suo poema più celebre, la storia del soldato Vasilij Tërkin, come «un’opera coraggiosa, pulita, onesta», che toccava l’anima. Il poeta, che non poteva dire tutta la verità sulla guerra, si fermava sempre a un millimetro dalla bugia senza mai oltrepassarne il limite.



Anche Tvardovskij, tuttavia, aveva pagato, e pesantemente, il tributo all’ideologia: in gioventù partecipando alla collettivizzazione forzata, lui, figlio di contadini deportati; successivamente scrivendo menzogne spudorate sulla felicità della campagna socialista e su Stalin. Come facevano tutti, del resto, in quegli anni. Era stato ripagato con tre premi Stalin, un premio Lenin, un premio di Stato e svariati altri, ed era entrato nell’apparato con cariche di grande prestigio (membro candidato del Comitato Centrale, dirigente dell’Unione scrittori, ecc.).

Ciò che lo aveva salvato dal più vile conformismo era l’integrità della sua sanguigna natura contadina, e ancor di più il suo animo di poeta, pieno di un amore appassionato dell’arte. Nella sua personalità si svolgeva un continuo combattimento tra il mondo sovietico ufficiale, in cui aveva sinceramente creduto, e la sua anima di poeta contadino assetata di verità, onore, senso del bello. Quest’uomo così complesso nel 1950 era stato nominato direttore del Novyj mir, e lui per sedici anni aveva sfruttato la propria autorità di maestro per promuovere tutto ciò che c’era di vivo nel paese. Così facendo aveva dato spazio a una pleiade di nuovi autori poi diventati celebri, Trifonov, Tendrjakov, Dombrovskij, Vojnovic, Vladimov, Sinjavskij, Suksin e molti altri.



Era stato un direttore coraggioso che usava tutti gli spazi di libertà concessi dall’alto in quel periodo di destalinizzazione, spesso tirando la corda oltre i limiti consentiti e rischiando la testa. E difatti aveva pagato personalmente, perdendo per ben due volte la poltrona, prima nel ’54, poi l’ultima nel ’70, un colpo che sicuramente ha accelerato la sua fine.

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Del resto, a lui piaceva stare nel cuore della battaglia, per carattere tendeva a «prendere tutto su di sé, pronto a risponderne senza paura». Esattamente così aveva fatto con Una giornata di Ivan Denisovič, il romanzo di uno «sconosciuto autore di provincia». La pubblicazione, veramente esplosiva, di quel primo romanzo di Solženicyn, nel 1962, era stata l’apice della sua carriera professionale e fonte della sua rovina.

 

Quando aveva letto il manoscritto, di notte a casa, era stata una folgorazione. Non era tanto il tema del lager che lo aveva preso (di racconti sui lager ne avevano già ricevuti in redazione, ma non erano passati al vaglio), quanto la perfezione organica, viva, dell’arte. Racconta un testimone che Tvardovskij era «luminoso, ringiovanito, quasi impazzito dalla gioia. “Non avete mai letto niente di simile! Mai! Ci scommetto la testa!…”. Sembrava vent’anni più giovane. Gli occhi gli brillavano. Splendeva tutto, come se emanasse dei raggi. “Alla nascita di un nuovo scrittore! Autentico, grande! Non ce n’è stato mai uno così! Finalmente è nato!”».

 

Tvardovskij aveva architettato un piano strategico che era come un’operazione bellica. Era arrivato fino a Chruscev per strappargli un consenso alla pubblicazione che nessuna istanza potesse boicottare. Per un anno aveva difeso l’opera come se fosse sua, aveva tripudiato per il successo come se fosse il suo trionfo personale. Il lungo processo che ha cambiato il clima culturale in URSS, e ha liberato le coscienze, è debitore in uguale misura agli outsider clandestini usciti allo scoperto, come Pasternak o Solženicyn, e a personaggi dell’establishment come Tvardovskij, che hanno combattuto una battaglia dall’interno armati solo della propria umanità sincera.

 

Al suo vice che gli consigliava prudenza: «loro non ce lo perdoneranno mai. Per una cosa del genere perderemo la rivista. E tu sai che cosa è la nostra rivista, non solo per noi due ma per tutta la Russia», Tvardovskij aveva risposto come un uomo libero: «Capisco, ma che me ne faccio della rivista se questo non potrò pubblicarlo?».

 

 

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