Perché proporre quest’anno al Meeting, e quindi a un pubblico italiano, una scrittrice del Sud degli Stati Uniti? Se confrontata con Leopardi, Pavese, Dante, con l’intero canone della letteratura italiana, cosa può aver da dire questa donna sul tema Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore?
Più di ogni altro scrittore moderno, Flannery O’Connor ha assunto una posizione che l’ha spinta a rimanere di fronte al cuore umano, descrivendolo in un modo che rende evidente come ci si senta soffocati, come il nostro desiderio si sbricioli e vada perduta ogni possibilità per l’uomo di essere felice, a meno che si rimanga di fronte all’Infinito. Storia dopo storia e lettera dopo lettera (dopo aver letto le sue lettere raccolte in The Habit of Being, in italiano Sola a presidiare la fortezza, pubblicato da Einaudi, qualcuno ha audacemente proposto per lei il titolo di Dottore della Chiesa), la O’Connor descrive la lotta dell’uomo con il bene e con il male, dando rilievo al dramma del nostro cuore, preso tra nichilismo e speranza, positivismo e mistero, con la “M” maiuscola.
Per lei, anche le cose più semplici, come l’appuntamento per una visita medica (vedi Ruby Turpin in Revelation), o una gita familiare (vedi il dramma tra la nonna e il Balordo in A Good Man is Hard to Find, in italiano Un brav’uomo è difficile da trovare), oppure un corso dietistico presso la locale YMCA (un’associazione maschile cristiana, come in Everything that Rises Must Converge,in italiano Ogni cosa che s’innalza deve ripiegare), diventano luoghi dove uomini e donne si confrontano con il definitivo, misterioso Tu che chiama ogni coscienza in ogni momento vigile della vita (“Ogni giorno è il giorno del giudizio” commenta un personaggio nel racconto Judgment Day). Un Tu che ci chiama fina dall’alba del tempo e con ancora maggiore immediatezza e urgenza dopo la Sua Resurrezione e Ascensione.
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Tuttavia, non si rende giustizia alla O’Connor definendola una scrittrice religiosa, perché il tessuto dei suoi racconti è intriso di religione non per fare proselitismo, piuttosto per una visione delle cose che è tutt’uno con quella della Chiesa, e che cerca di evidenziare che la natura e la vita umana sono buone perché sono il riflesso di un’altra realtà, invisibile, in cui Dio è entrato morendo per essa. O’Connor non cerca di convincere il lettore su Dio, ma cerca di rendere “massima giustizia all’universo visibile” (le parole sono di Joseph Conrad) e lascia che i fatti che accadono nella realtà parlino da soli, perché è in questi fatti che Lui parla. Flannery odiava ogni tipo di falsa pietà o sentimentalismo, al punto da affermare che non le piaceva recitare preghiere scritte da santi, perché non necessariamente riflettevano i suoi sentimenti, mentre Dio li conosceva meglio di quanto esse potessero esprimere.
Non era interessata ad essere una scrittrice cattolica ma a essere una scrittrice, una scrittrice che era cattolica, nel senso che ciò che riceveva dalla Chiesa valorizzava la sua libertà e la sua capacità di guardare, né aveva paura di affermare ciò di fronte al mondo letterario e artistico del dopoguerra, che insisteva invece sulla morte di Dio e sul trionfo estetico della mancanza di ogni significato. Come Santa Teresa di Lisieux, la santa patrona delle missioni, Flannery O’Connor ha fatto questo dal suo piccolo studio in una piccola comunità della Georgia, dove si trovava a causa delle limitazioni che le derivavano dalla sua battaglia contro il lupus, la malattia autoimmune di cui era morto anche suo padre. Aveva capito che per essere felice doveva seguire il sentiero tracciato da Dio per la sua vita e che questo comprendeva anche i limiti della sua malattia e del suo talento, e che entrambi l’avevano portata faccia a faccia con il Destino buono che la chiamava e che lei voleva ascoltare.
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La mostra di Rimini cerca, perciò, di allargare la sua conoscenza e notorietà nel mondo, di presentare la sua ironia e il suo amore verso la vita come un raggio di speranza per il mondo, una testimonianza che Dio è vivo e sta bene e continua a chiamarci, poco importa ciò che le cosiddette “grandi” menti dominanti nella letteratura e nella filosofia del ventesimo secolo hanno imposto al pubblico, in una concezione del mondo che non è una vera, una visione che annienta la speranza affermando ostinatamente che non vi è nulla oltre quello che vediamo e tocchiamo. Come Gesù, O’Connor ha accettato la croce perché conosceva il Grande Padre che avrebbe fatto risorgere la sua vita e con ogni possibilità di comunicare rimastale, con una lettera come dal suo letto di morte, ha continuato a dirlo al mondo, senza alcuna paura.