Ammortizzata il più possibile la crisi con le necessarie sforbiciate alle spese correnti, la società opulenta è tornata a sedere a banchetto. Alcuni, in verità, hanno perso tutto, altri si sentono minacciati dalla precarietà o dall’assenza di futuro, ma sono drammi di cui i più non si curano, occupati come sono ad amministrare dividendi ancora cospicui e a celebrare riti intoccabili di spensieratezza. Qualche lamentela per modiche rinunce, enfatizzate come penitenze apocalittiche; e poi, la consueta soddisfazione di istinti più o meno estemporanei, più o meno fatui, soddisfazione in cui si crede di toccare l’autentica liberazione, senza i vincoli e gli impedimenti di morali definitivamente tramontate, di fedi a cui nessuno o quasi presta più credito.
La società opulenta ha debellato, pare, convinzioni e religioni, di statuto confessionale o di impronta laica, nel senso che le ha rese del tutto ininfluenti nella vita concreta, nelle scelte che contano, lasciando loro, al massimo, qualche nicchia folklorica, da esibire nelle escursioni turistiche a gitanti in cerca di curiosità. A rigore, questa società che non sa credere più in nulla non si cura nemmeno di innalzare e vantare un vessillo ateo. Lo ha osservato di recente Massimo Cacciari, nella postfazione a un volume, ormai classico, di Augusto Del Noce, Il problema dell’ateismo, adesso ripubblicato. «L’ateismo, scrive Cacciari, non si predica più. Si dà nell’ignoranza del suo stesso nome. L’ateo continuava a rapportarsi a ciò che negava, o di cui negava il significato. Ma l’ateo pratico diviene pura pratica ateistica, libera dalla stessa coscienza del suo esser tale».
Di che cosa allora ci si occupa, nel momento in cui nessuno spreca più fiato per ribadire l’ovvietà che Dio è morto, di quali problemi si cerca adesso la soluzione? «L’universale pratica ateistica presuppone che si dia risposta soltanto per i problemi tecnicamente formulabili e risolvibili attraverso il calcolo». L’obiettivo, non dissimulato, è la compiuta risoluzione delle cose nella loro immediata utilità. Nessun richiamo moralistico è in grado di scalfire una situazione del genere; non è da un appello etico, insomma, che si può ricominciare, ne sono echeggiati tanti, hanno lasciato l’indifferenza che avevano trovato e che si illudevano di scuotere.
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La leva, il punto archimedeo, è semmai qualcosa che si agita in ogni uomo, senza lasciarlo mai in pace. In un dramma di Albert Camus, l’imperatore Caio Caligola confessa di aver provato «un’improvvisa sete di impossibile», un bisogno «della felicità o dell’immortalità». Forse un lusso, che solo pochi possono permettersi? Eppure «gli uomini muoiono e non sono felici», senza eccezioni. La constatazione occorre nel dialogo col servo Elicone; che da parte sua è sinceramente in ansia per le stravaganze di un sovrano così eccentrico, e gli vuol far la predica, raccomandando equilibrio e misura. Destino di morte e di infelicità? «Ma Caio, eccepisce il servo con inossidabile buon senso, è una verità alla quale gli uomini si adattano benissimo. Guardati intorno: non per questo si sono mai astenuti dal mettersi a tavola».
Triviale e attualissimo, l’argomento ha una sua forza. Il guaio è che Caligola, oltre a guardarsi intorno, osserva la propria umanità; in cui riscopre, del resto, il fondo inquieto dell’umanità di tutti. Il folle, almeno in questo caso, è chi si incarica di additare quello che gli altri potrebbero scorgere coi propri occhi, se ne avessero il coraggio, in definitiva nulla impedisce loro di guardare dentro se stessi. Salvo il preconcetto o un senso di impotenza. «Proprio degli spiriti deboli di natura, o debilitati dall’uso dei mali, osserva Leopardi, il ridursi a desiderare solamente poco, e questo poco ancora rimessamente; anzi, per così dire, il perdere quasi del tutto l’abito e facoltà, siccome di sperare, così di desiderare».
Quasi del tutto, appunto: perché, come lo stesso Leopardi ha modo di testimoniare, ogni momento di vita implica necessariamente desiderio e speranza, per quanto intimiditi, annidati sottotraccia. Questa capacità di aspirare all’infinitamente grande può esser ribattezzata "cuore". Il termine, si sa, è oggetto di esaltazione e di diffidenza. Malintesa esaltazione, se approva la reattività immediata, a fior di pelle, e di solito meschina, senza nemmeno l’ombra di quella vastità e nobiltà di prospettive testimoniata da Camus, da Leopardi, da molti altri con loro. Malintesa diffidenza, se nega al cuore, inteso nell’accezione meno banale e canzonettistica, un’effettiva presa conoscitiva.
Ma fiducia nel cuore e insofferenza nei suoi confronti possono anche andare d’accordo: gli si affida una sfera ben delimitata, gli si intima di non varcarne mai i confini. Pesano, a riguardo, due pregiudizi tipicamente moderni. Il primo proclama indecifrabili le questioni sul destino e sul fine ultimo, e le relega nell’ambito delle opinioni private e irrazionali, tanto indiscutibili quanto arbitrarie, buone per il singolo ma solo per lui; in quest’area protetta, regna e decide il cuore, come sentire soggettivo e immotivato, a cui è lecita qualsiasi opzione, purché resti confinata in quel sacrario, nei penetrali dell’anima bella, e risulti socialmente irrilevante, al limite incomunicabile.
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Il secondo pregiudizio è il presunto ideale della comprensione "disinteressata", per cui l’individuo attingerebbe una conoscenza oggettiva solo espungendo le proprie istanze più intime, per elevarsi col pensiero a una soglia di universalità dalla quale diventi indifferente e insignificante la propria esistenza particolare. Da una parte, dunque, un cuore che governa insindacabilmente la zona franca del privato, cui attengono credenze meramente soggettive; dall’altra, un pensiero in grado di conquistare verità condivisibili, previa amputazione, però, di esigenze e bisogni che soffrono il peccato d’origine della particolarità. Scontiamo da tempo questo dualismo; siamo autorizzati ad evaderne?
Il desiderio che urge dentro non è un progetto, ma un dato; se si preferisce, una risorsa, in ogni caso una spinta che preesiste, poiché è in noi prima di ogni nostro decreto. Assecondare o al contrario ostacolare questo movimento tellurico è certo nella nostra disponibilità, ma non suscitarlo, e nemmeno decretarne la fine. In un monologo di Alessandro Baricco assurto a una certa notorietà grazie a un’accattivante trasposizione cinematografica, il protagonista confessa di aver paralizzato i propri desideri con la formula magica della rinuncia: «Stavano strappandomi l’anima. Potevo viverli, ma non ci sono riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me. Se tu potessi risalire il mio cammino, li troveresti uno dopo l’altro, incantati, immobili».
Lo sconfortato sortilegio, infatti, non può produrre la dissoluzione di ciò che riesce (provvisoriamente?) a bloccare. Tant’è: un vecchio vocabolario attribuiva il gusto per l’infinito e l’amore di ciò che è immortale alla "natura" dell’uomo. Sia come si voglia, il cuore è un fenomeno condiviso; e per il fatto stesso che esiste non può riuscire arbitrario e assurdo, deve possedere una ragion d’essere. Se fosse, anzi, esso stesso un criterio di ragionevolezza, almeno nei problemi più decisivi, che sono proprio quelli, concretissimi e insieme universali, che toccano l’individuo, ciascun individuo, felicità e dolore, liberazione o schiavitù? «Tutto ciò che esiste merita di morire» recita un noto assioma del materialismo ottocentesco.
«Amare significa dire a qualcuno: tu non morrai», ribatte qualche decennio dopo un asserto del più impegnato esistenzialismo. Inevitabile optare tra l’una e l’altra tesi, ma le opzioni non stanno tutte sullo stesso piano, perché non sono ugualmente corrispondenti al cuore, e proprio per questo non godono della medesima plausibilità. La strada praticabile, o se più piace l’uscita di sicurezza da una situazione sociale e morale che avvertiamo inautentica, non corrisponde anzitutto a un dover essere, coincide invece con una realtà già presente. Il cuore, con tutta la sua eccedenza, è un fatto; sarebbe già tanto non censurarlo, paragonare questo criterio che è in noi con ogni proposta che ci raggiunge. Tanto più adeguata se ci permette di vivere fino in fondo le aspirazioni che vorremmo lasciare, per stanchezza e sfiducia, alle nostre spalle.