Sulla strage del 2 agosto 1980 a Bologna, i magistrati hanno guardato esclusivamente a destra, nel mondo ribollente dell’eversione neo-fascista. Le loro sentenze sono di una debolezza estrema. Credo di aver documentato, nel recente convegno romano per la presentazione del volume del giudice Rosario Priore, Intrigo internazionale, Chiare Lettere editore, che hanno ignorato la pista (cioè gli interventi combinati del terrorismo palestinese, di Carlos e del suo sodale Thomas Kram) che portava a sinistra, per usare questo termine.
A Bologna operava il capo dell’apparato para-militare clandestino del Fronte di G. Hababsch. A Bologna era stato Kram (addirittura la notte del 1 agosto aveva dormito in un hotel vicino alla stazione ferroviaria). Da Bologna un agente dei nostri servizi segreti aveva comunicato al capo della polizia, l’8 marzo e l’11 luglio 1980 che i palestinesi preparavano una dura rappresaglia contro l’Italia. Il governo aveva permesso che venisse condannato un loro dirigente, insieme a D. Pifano ed altri due dirigenti dell’Autonomia romana di Via dei Volsci, trovati dalle forze dell’ordine con due missili terra-aria sovietici incassati nel portabagagli di una Peugeot.
A Bologna il 16 settembre 1980 i giudici inquirenti vengono informati dalla polizia giudiziaria che su un elenco di 30 sospettati, l’unico risultato positivo era stato Thomas Kram, e al suo nome era allegato un dossier della polizia tedesca. Purtroppo tra il Ministero dell’Interno e gli inquirenti petroniani per anni non c’è stata nessuna efficace collaborazione come quella di scambiarsi le informazioni.
Se dicessi che, per quanto mi concerne, a registrare, insieme ad alcuni altri colleghi consulenti della Commissione Mitrokhin, su una base documentale inoppugnabile, quanto ho appena detto, è stato un liberal-socialista impenitente (con un lungo periodo di iscrizione anche al Pci e al Psi) avrei la sensazione assai spiacevole di cercare una giustificazione per aver avuto un approccio diverso da quello dei comunisti in quegli anni. Non posso indulgere a un tale comportamento anche perché, come iscritto al Pci, feci sempre un uso indocile, scostumato, cioè assai libero, della libertà di critica. Non ero il solo, se penso ad un filosofo come Massimo Cacciari.
Non mi fermarono reprimende e insulti. Ricordo quelli del direttore de l’Unità, Emanuele Macaluso. Oggi è un commentatore politico molto garantista e liberale. Allora era, o tale a me parve, un uomo con un forte senso del potere, direi classicamente siciliano, ligio alla burocrazia di Via delle Botteghe Oscure. Ne fu a lungo figlio e soprattutto garante. Non saprei dire, pensando all’evoluzione subita dopo lo scioglimento (per esaurimento della ragione sociale originaria, cioè del Pci) se più spregiudicato o solo più cinico.
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Perciò, con questi precedenti,cercare una spiegazione alla mia ricerca, sulle origini della strage del 2 agosto, di ipotesi diverse, non ufficiali nel mondo della sinistra, sarebbe pura e semplice impostura. O avrebbe un suono auto-canzonatorio.
Vivo da molti decenni a Bologna per poter ignorare quanto sia una città impavidamente conservatrice. Mai sleale,anche da parte della ricca borghesia, verso il partito che l’ha sempre domata, fino a darle una fibra perbenista e una vocazione di aperto, scattante, e anche petulante, conformismo. È stata la più europeo-orientale delle città italiane che si possa immaginare. Mi è capitato di paragonarla a Praga (1).
Per non assecondare l‘idea di ricredermi, mi basta pensare agli uomini di partito (G. Dozza, G. Fanti, R. Imbeni, W. Vitali), all’intellettuale attento ad ogni possibilità di auto-affermazione e di occupare la ribalta, Renato Zangheri (arrivò a definire “un eroe negativo” il suicidio del giovane praghese Jan Palach per esprimere la propria disperazione contro l’oppressione del regime comunista a Budapest) e al sindacalista Sergio Cofferati. Come sindaco che ha reso libera l’esalazione dell’urina e il tracciato del lerciume nel centro della città.
Quando ho saputo da Antonio Selvatici che i suoi libri, Prodeide e Pci Spa, pubblicati dall’editore Il Fenicottero, sono andati esauriti nel giro di qualche giorno, perché qualche anima buona e una forza politica a costei ossequiosa li aveva acquistati in blocco, ho avuto solo una prova ulteriore di questa città dall’anima serenamente sovietizzata.
Molto forte è il fondo di rispetto, anzi di lealismo, ai partiti e alle istituzioni della sinistra, dominanti dalla guerra di liberazione ad oggi, cioè da almeno 65 anni. Dietro la maschera dell’antifascismo, ho visto prosperare la più plateale dittatura della maggioranza (social-comunista, come si diceva una volta con un linguaggio vituperato come di destra).
L’uso pubblico della storia era solo funzionale a legittimare una tradizione e una fama di città “de-mocratica”, aperta ad ogni trasgressione, pluralista, ecc. Sul mercato politico questa retorica sulla città-simbolo è servita ad accreditare l’immagine di ciò che i comunisti non erano, e non sono mai stati, in nessuna parte del mondo, cioè una forza classicamente europeo-occidentale, di sinistra democratica, rispettosi delle differenze, aperti alla collaborazione con i “diversi”. Grazie a questa “diversità”non c’era, dunque, ragione di impedire loro l’accesso al governo. E si doveva smetterla di pensare che il comunismo fosse una maschera unica, riducibile a quella orrenda, criminale e infame dell’impero sovietico, e che quindi non fosse riformabile.
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In termini generali, questa certosina cura di sé, vera e propria invenzione di una tradizione, aveva un’ambizione non troppo risposta e segreta. Si intendeva sostenere che il comunismo non era un mausoleo di marmo,cioè non si doveva crocifiggerlo su Stalin e lo stalinismo. Sarebbe stato, in altre parole, un regime non rigido,ma flessibile, cioè riformabile. Si poteva democratizzarlo spogliandolo dell’armatura militaresca serratagli addosso da Lenin, da Stalin e dalla guerra fredda. A Bologna, l’aspetto relativo al welfare comunista, cioè al buon funzionamento di alcuni servizi socio-sanitari (penso agli asili-nido e all’assistenza ai vecchi), non si può negare. Altri, invece, sono classiche mitologie dell’auto-considerazione smodata che il Pci petroniano ama imbandire di sé.
Pertanto, la strage del 2 agosto 2000 è stata presentata immediatamente sia come un’offesa intollerabile a questa “diversità positiva” dei comunisti sia come una violenza, anzi un complotto. In esso avrebbero messo lo zampino i soliti mestatori di torbido che per un normale compagno bolognese ed italiano sono la Cia, il Mossad, i cosiddetti “poteri forti”, l’imperialismo e ovviamente tutte le possibili incarnazioni del fascismo (mai domo e anzi sempre operante) come sostenne l’amministrazione comunale e il gruppo dirigente del Pci (2). La preoccupazione era solo una: orientare le indagini e le sentenze dei processi verso l’estrema destra, cioè il vecchio eterno nemico, il fascismo.
Mi sento totalmente estraneo a questa sindrome di leggere il presente con gli occhi del passato, facendo dell’anti-fascismo una chiave che apre tutte le porte della nostra storia. Non ignoro che ci sia stata un’eversione neo-fascista nel nostro paese, che essa si sia macchiata di delitti e abbia montato attentati e cospirazioni con tenacia e virulenza. Non lo ignoro, e lo riconosco anzi apertamente, dopo aver letto l’enorme documentazione raccolta proprio dai giudici istruttori del processo sul 2 agosto. Un buon lavoro certamente. Da questo punto di vista.
Non mi convince, però, che esclusivamente o prevalentemente all’anti-fascismo essi abbiano voluto ispirare le loro indagini. Sono state ignorate o sottovalutate altre ipotesi che portavano verso lidi che per la sinistra erano, e sono, intoccabili, un territorio blindato, impenetrabile: l’estremismo di origine arabo-palestinese probabilmente in combutta con una banda come quella della primula rossa del terrorismo, “Carlos”. In altre parole, l’anti-imperialismo col suo odio senza limiti anzitutto verso Israele.
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Quante volte l’ho sentito echeggiare, come un maglio demolitore, nei congressi del Pci! Solo più tardi avrei capito come mai Umberto Terracini, al quale sedevo vicino, si accovacciava, a riccio, muovendo più il corpo che le mani, per mascherare un falso applauso ad Arafat mentre era al microfono, col parterre del congresso in piedi ad osannarlo, con un entusiasmo indescrivibile.
Non ho opinioni politiche da difendere né certezze da esibire, ma al massimo qualche documento e indizio da offrire al lettore e agli inquirenti. Chi fa il mio mestiere, e direi quello dei miei amici qui raccolti, lotta all’arma bianca, con le mani nude si arrampica su rocce acuminate. Può solo sollevare dubbi, fare domande. Scrollare idee fisse e sicurezze. Niente di più. Ai magistrati spetta esaminare i materiali e i sentieri, le tracce offerte e decidere se hanno qualche fondamento per fare in modo che tra verità giudiziaria e verità politica non ci sia una corrispondenza presupposta, cioè esclusivamente un pregiudizio.
L’unica cosa di cui non ha senso parlare è l’impotenza dello Stato. Lo si è fatto più volte per questa strage come per tutte quelle che l’hanno preceduta. Nella lunga storia del terrorismo gli apparati statali (servizi, ministero dell’Interno, Carabinieri ecc.) hanno sistematicamente “gestito” ogni forma di estremismo, di destra e di sinistra, servendosene per i loro scopi, non sempre reconditi. Lo hanno fatto con le Brigate rosse, infiltrando l’intera leadership, ma anche con i gruppi eversivi neo-fascisti, con forme di complicità e di collaborazione che si spiegano solo con la prospettiva di indebolire e sgominare lo stato (3).
Resta solo da riuscire a capire come mai, anche se male in arnese, questo fascio di istituzioni deboli, spesso corrotte, inefficienti, abbia fatto a restare in piedi, cioè a sopravvivere alle molteplici spinte, esterne ed esterne, che mirano a distruggerlo. La sinistra, quando aveva degli obiettivi rivoluzionari, non ha mai amato lo stato, e non si è mai premurata di elaborare una concezione di esso, al di là della scabra teoria, di origine comunarda, per la sua distruzione, messa a punto da Marx e Lenin. Quando ha cessato di essere rivoluzionaria si è rassegnata alla lezione che veniva dal lungo predominio della Dc e da uomini come Andreotti. Lo stato era più conveniente governarlo senza toccarlo profondamente, evitando dunque di riformarlo (4). Bastava usarlo così com’era.