Desidero rammentare che il mercato (come luogo di incontro della domanda e dell’offerta dei beni) nasce prima dell’economia capitalistica; di conseguenza far coincidere quest’ultima economia con quella del libero mercato è una forzatura storica e logica.

L’economia capitalistica usa il mercato come strumento per perseguire i propri obiettivi e, per meglio realizzarli, ha modellato il mercato alla propria filosofia e al proprio postulato etico che è quello del tornaconto ottenibile tramite il massimo profitto possibile.



Il libero mercato, invece, è tale perché in esso ciascun attore possa ricercare, attraverso la trasparenza contrattuale, una “giusta” e reciproca soddisfazione per gli scambi messi in essere. Il libero mercato è tale perché le operazioni che in esso si attuano seguono il binario delle norme comportamentali che la tradizione ha messo in essere e/o che gli enti territoriali pubblici e privati hanno emanato nell’interesse generale e perché negli scambi si possa trovare reciproca ed equivalente soddisfazione.



Da quanto detto consegue che l’attributo “giusto” nel libero mercato si traduce nella cosiddetta giustizia commutativa per cui, nella contrapposizione degli interessi, bisogna riconoscere all’imprenditore industriale o commerciale sia un’adeguata ricompensa per i fattori produttivi posti in posizione di rischio (il lavoro proprio, le materie proprie conferite, il capitale proprio investito, ecc.) sia una ricompensa al cosiddetto rischio ontologico d’impresa.

Nel libero mercato un’operazione economica è giusta solo se è effettuata nel rispetto dell’equivalenza dei valori che si sono scambiati tra moneta e beni. Il valore “numerario” della moneta diviene così lo strumento misuratore della giustizia degli scambi. L’economia capitalista ha, invece, trasformato la moneta da strumento numerario-misuratore in un “bene per eccellenza”, in un “bene” che è insieme strumento e fine dell’operazione.



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La logica del massimo tornaconto dell’economia capitalistica viene così a sostanziarsi nella ricerca della massima quantità di moneta possibile ottenibile dallo scambio. La moneta in questa economia diviene il bene principale che motiva le operazioni in offerta e a cui tutto deve essere razionalmente asservito per la postulazione del massimo profitto. Il punto di vertice di questa posizione l’abbiamo nei mercati finanziari ove la moneta è chiamata solo a produrre altra moneta e dove la speculazione (la legge del più forte o del più furbo) sostituisce in toto la legge della giustizia commutativa.

 

Nell’economia capitalistica il massimo tornaconto si sostanzia nell’incremento di moneta o di beni che si sono scambiati. Questo accade perché l’obiettivo non è più la giusta contrapposizione fra equivalenti da ricercarsi nel mercato, ma “esasperando” il concetto di rischio ontologico di impresa la pretesa remunerativa dell’imprenditore non si ferma nell’ottenimento di una giusta remunerazione dei fattori produttivi posti sub rischio, ma, facendo leva sul tornaconto dell’imprenditore, non pone limiti e sostiene la liceità della ricerca del massimo profitto possibile. In questa maniera si introduce nel mercato una nuova legge, che è quella del più forte. Nell’economia capitalistica il principio etico, quindi, non è più quello di postulare la “giusta equivalenza” negli scambi, ma quello di trarre dagli scambi il massimo profitto possibile.

 

Da quanto argomentato se ne trae la conseguenza che il mercato è un’istituzione che è possibile adattare a diversi e anche tra loro contrapposti obiettivi; oserei affermare che il mercato di per sé non esiste, ma è (o diviene) quello che la volontà dominante assoggetta a un principio etico: nell’economia del libero mercato il principio è quello dell’equivalenza dei valori scambiati; nell’economia capitalistica è quello del massimo profitto ottenibile.

 

Per giustificare il suo obiettivo etico il capitalismo ha dovuto assumere l’assunto teorico che quando l’individuo opera nel mercato, porta razionalmente in esso tutta la sua carica egoistica ed è esclusivamente motivato dalla ricerca del suo massimo tornaconto; ogni altra motivazione sarebbe di per se stessa non razionale.

 

Al servizio di questa teoria gli economisti sostenitori hanno costruito un modello umano che è quello dell’homo oeconomicus tutto ricompreso nella sua astratta razionalità ove la ragione (il perché e l’opportunità delle cose), lo sguardo alla realtà (il riconoscersi a sua volta dipendente dalla reciprocità dei rapporti sociali), il “cuore”, gli accadimenti che si dipanano durante la vita, il modo di concepire la proprietà (non come possesso che si trasforma in possessione, ma come qualcosa che è data perché la si utilizzi anche a favore degli altri) sono completamente assenti, anzi non esistono, perché, se dovessero essere presi in considerazione, il modello di questa economia manifesterebbe tutta la debolezza logica e paleserebbe che la sua ragione d’essere non è quella di favorire l’uomo reale, ma quella del perseguimento del potere (economico e non), tramite l’accumulo del denaro e la costruzione di tutte quelle consorterie che hanno posto Mammona (il dio denaro) al disopra di ogni principio. In questa economia si ha il primato del capitale sul lavoro. Ovvero il fattore lavoro è eticamente subordinato al capitale e da questo deve dipendere.

 

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Il capitalismo ha trovato terreno fertile nella Riforma protestante la quale ha veicolato il principio che la ricchezza fosse manifestazione della grazia divina; questo ethos tipicamente calvinista è stato successivamente articolato e razionalizzato nell’economia weberiana. La Dottrina sociale della Chiesa, mentre ha sempre espresso riserve e talvolta anche condanna alle scelte dell’economia capitalista, ha sempre accettato e suggerito il libero mercato come il “luogo” preferito per i processi economici perché esso risulta più “aperto” ad accogliere sia le esigenze di giustizia sociale sia il principio etico che Essa invita a postulare nei processi economici: il principio del bene comune. Questo principio è attuato oltre che nel rispetto della reciprocità anche nel rispetto della solidarietà, della sussidiarietà e del dono (perché quest’ultimo come “plus del cuore” rispetta e supera gli stessi sani rapporti di equivalenza dei valori scambiati nel mercato).

 

La Chiesa, di conseguenza, è favorevole al perseguimento del giusto profitto (quello che remunera l’imprenditore per il rischio ontologico dell’impresa), ma è anche favorevole alla postulazione di eventuali eccedenze di profitto purché siano destinate a favore di fini sociali o siano investite nell’impresa a favore di nuovi posti di lavoro. La Chiesa sostiene anche che alcune tipologie di imprese (le imprese sociali) possano rinunciare alla distribuzione del profitto al capitale a favore di fini sociali.

 

Il tutto trova fondamento su due presupposti: il primo è quello che la proprietà non è un diritto assoluto, ma è “data” per essere a disposizione del bene comune; il secondo è quello che stabilisce il primato del lavoro sul capitale. Quest’ultimo presupposto, che ribalta quello capitalistico, non vuole significare che il lavoro, in quanto fattore più debole, debba essere tutelato, ma che il capitale origina dal lavoro ed è ontologicamente destinato a produrre nuovo lavoro, per cui ogni sua differente destinazione non sarebbe naturalmente giustificabile.

 

Il lavoro produce capitale per essere destinato a produrre lavoro; quando il capitale, da solo, produce altro capitale siamo quasi sempre di fronte a un’attività speculativa, siamo di fronte all’accumulo della ricchezza per la ricchezza, ove di certo la Grazia non è di casa.

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