È passato da pochi mesi il trentesimo anniversario dell’assassinio di Walter Tobagi. Nel ricordo degli amici, di tutti gli amici, c’è quasi una sincera devozione per il giovane inviato del Corriere della Sera colpito alle spalle in quella tragica mattina del 28 maggio del 1980. Ma spesso il ricordo di una persona, anche per quello di cui si era reso protagonista, è inficiato o offuscato da personali aspettative o anche da una conoscenza che non poteva arrivare di certo all’intimo della persona Walter Tobagi. Poiché “l’affare Tobagi” è stato vissuto soprattutto politicamente, per le implicazioni che aveva il suo ruolo nel sindacato dei giornalisti, con tutta probabilità è sfuggita la parte più profonda della personalità di Walter. Si è sempre affermato, e con giusta cognizione di causa, che Tobagi fosse una “rarità”politica in quegli anni. Un catto-socialista, in controtendenza con la moda del tempo, il catto-comunismo. Non c’è dubbio che vi era grande sintonia tra il segretario del Psi di allora, Bettino Craxi, e Walter Tobagi. Ma non c’è dubbio che il nucleo centrale della personalità di Walter fosse il suo cattolicesimo, la sua profonda fede. Ci sembra giusto, per questa ragione, riproporre la testimonianza di un carissimo amico di Walter, Giuseppe Baiocchi, tenuta il 27 maggio 2010 al Corriere della Sera.



(Gdr)

Vi ringrazio di cuore per l’invito e anche per l’argomento assegnatomi. Anche perché adesso, quando si è ormai depositata la polvere delle polemiche politico-giudiziarie ed è tornata ad avere cittadinanza nel discorso pubblico la dimensione religiosa, fa ancora fatica ad emergere la consapevolezza diffusa che la condizione del credente fosse la solida roccia, il fondamento sicuro da cui scaturivano per Walter l’impegno civile, il rigore professionale e anche le scelte scomode e controcorrente nelle quali espresse il suo mite coraggio. Lo confermano da sempre i suoi familiari e, se permettete, lo confermo anch’io che sono l’unico collega ad aver condiviso con Tobagi gli studi storici, l’assistentato universitario e la fede religiosa, oltre al lavoro qui al Corriere e all’impegno nel sindacato.



Tutti sapevano che Walter era cattolico, credente e praticante: un aspetto non esibito ma neppure nascosto o riservato. E tuttavia non era il “prodotto” di formazione del vasto associazionismo cattolico, com’era accaduto per molti. È sempre stato un “semplice fedele”, un laico credente che era disponibile in parrocchia e che sentiva l’esigenza di approfondire le Scritture, nell’ambito di quelle esperienze-pilota di letture bibliche che poi diverranno col tempo patrimonio comune delle comunità ecclesiali. Semmai preferiva mettere alla prova l’inquietudine della sua fede nel mare aperto della società di allora, lacerata e smarrita sotto il peso della violenza, attentissimo a cogliere, nella sua approfondita lettura, i germogli positivi e i minimi segni di speranza.



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Forse è anche per questo che di Chiesa e di mondo cattolico (allora attraversato dai fermenti post-conciliari) si è occupato professionalmente pochissimo. E non ne scrive mai quando lavora ad Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Anni che ricorderà come i più sereni. Allora c’erano stati il matrimonio e la paternità, la laurea in storia con una tesi di mille pagine sui sindacati confederali degli anni ’45-’50 e il suo primo libro, uscito nel 1970. Ovvero la Storia del Movimento Studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, dove, da “storico del presente”, coglieva nei fatti la drammatica contraddizione del Sessantotto. Quella cioè di abbandonare ben presto la prospettiva del futuro da costruire per rivolgersi, nel magma della sinistra politica e culturale, soltanto al passato. E di costituire così la tragica rivincita dei “nonni”, rivoluzionari e massimalisti, contro i “padri”, democratici e costituzionali, scivolando inesorabilmente verso la violenza, prima verbale, poi fisica e quindi armata.

 

Eppure di Chiesa e di cattolici si occupa anche professionalmente pur se in maniera episodica. C’è un suo bel libro per Il Mulino, una matura biografia di Achille Grandi (che magari la Cisl farebbe bene a riproporre), Ci sono, li abbiamo ripresi nella vasta antologia curata cinque anni fa per l’Associazione Lombarda dei Giornalisti, interventi sporadici ma significativi, e sempre dentro l’attenzione alla novità. Come gli articoli sul fenomeno allora nuovo di Comunione e Liberazione negli atenei, che Walter racconta come sono, senza liquidarli come “clericofascisti” secondo la vulgata allora corrente, oppure i contributi su Papa Woityla, sempre problematici, come quello del confronto con la realtà omosessuale, che forse non avrebbe sfigurato nel bel volume che il Corriere oggi (27 maggio 2010, ndr) ha mandato in edicola e dove si nota dolorosamente l’assenza dell’argomento religioso.

 

Credo comunque che, al di là del ricordo, anche un’opportunità come questa possa costituire davvero una “memoria del futuro” (era un’espressione che, da storico, gli piaceva molto). E sia il caso di dar conto del suo interrogarsi in profondità di che cosa volesse dire, nella temperie di quegli anni, la condizione del “cristiano che di mestiere fa il giornalista”. Allora eravamo solo in sette i cristiani “dichiarati” nella grande redazione del Corriere. E l’occasione furono, nell’estate del ’79 quando era già nel mirino dei terroristi , le bozze del Catechismo per gli Adulti, che l’arcidiocesi di Milano gli aveva mandato in visione. Per Walter, che andava subito all’essenziale, era indispensabile ripartire dalla sapienza delle Scritture.

 

In fondo, a ben vedere, Gesù Cristo non fa programmi, non lancia messaggi: a chi gli chiede, chi fosse e cosa proponesse, risponde soltanto con queste parole: “Venite e vedete…”. E andare e vedere, magari con l’occhio lungo e l’orecchio attento del cronista, commentava Walter col suo quieto sorriso, non è forse la sostanza ultima del nostro mestiere?

 

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Non solo: proprio quelle cronache che sono attuali da duemila anni suggerivano un’altra divisa professionale. Gli apostoli non ci fanno umanamente una gran figura: non capiscono, si addormentano e scappano; e perfino Pietro, che pure era già il capo della Chiesa, non nasconde di aver rinnegato il maestro tre volte prima che il gallo cantasse. E allora la lezione che ne veniva era quella di non edulcorare, di non occultare, di non subordinare la narrazione ad occhiali o pregiudizi ideologici o compiacenti. Piuttosto esprimere fino in fondo una dote indispensabile da coltivare con rigore. Quella cioè dello “stupore”, ovvero la libertà interiore di lasciarsi sorprendere dalla realtà che si veniva ad incontrare, di raccontarla tutta, per scomoda, “dispettosa” disordinata che fosse, cercando di restituirle, attraverso l’indagine e lo scavo, forma e ordine, gerarchia e significato più autentico e profondo.

 

Uno “stupore” certo, ma del tutto privo di ingenuità: semmai con il disincanto di chi aveva letto e meditato (ci era capitato di farlo insieme) le opere di Seneca e di Procopio di Cesarea sulla corruzione del potere e l’uso strumentale degli estremisti nelle corti degli imperi romano e bizantino. E tuttavia l’esercizio sorvegliato e intelligente dello “stupore” era la via per fornire al lettore e al cittadino il servizio democratico e a tutto campo dell’informazione, così che ciascuno potesse formarsi in completezza il proprio libero convincimento. E in questo percorso il giornalista andava naturalmente tutelato nella sua autentica autonomia e indipendenza. Un bisogno di civiltà che sentivano anche altri: e in questa prospettiva ci furono i ripetuti incontri con il giudice Emilio Alessandrini (che cadrà anch’egli vittima dei terroristi rossi) nella convinzione comune che era indispensabile per il tessuto democratico salvaguardare autonomia e indipendenza, non tanto delle categorie quanto del singolo operatore, che, nel suo rigore professionale e nella solitudine della sua coscienza, poteva così offrire a una società complessa e moderna il libero e cruciale servizio vuoi della giustizia e vuoi dell’informazione.

 

Di qui l’impegno innovativo nel sindacato, un impegno teso a contrastare il comodo conformismo e a diffondere segni di lavoro per un cambiamento positivo, graduale e partecipato. Un cambiamento nel quale Tobagi collocava una robusta e intelligente dose di speranza testarda, davvero cristiana. La spes contra spem diventava allora la molla segreta che presiedeva ad un impegno multiforme e spesso affannoso nel quale spendeva tutti i suoi talenti verso l’edificazione di una società migliore, come confesserà nelle lettere ai familiari. E quando il quadro sociale, la scia sanguinosa di una violenza diffusa che appariva inestirpabile, provocavano un senso di generale e rassegnato sconforto, Walter ricorreva ad un’esperienza storica che molto lo aveva colpito (mi scuserete qui la testimonianza davvero personale). Erano le parole di Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, che a me, un tempo giovane ricercatore di storia, aveva aperto la sua casa, le sue carte e la sua memoria.

 

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Spiegava Ludovico Montini le loro sofferenze sotto il fascismo: “Eravamo più che convinti che non avremmo più rivisto la libertà perduta. E che la libertà sarebbe stata un dono solo per i nostri figli o per i nostri nipoti. Eppure non importava, bisognava comunque prepararsi lo stesso, formando i giovani sui valori cristiani e liberali, vaccinandoli contro la retorica pagana del regime, tenendo vivo quel tessuto di comunicazione e di cultura che era il nostro vero patrimonio… Poi la Provvidenza aveva deciso diversamente e, riconquistata la libertà, noi eravamo pronti…”.

 

Racconterà anni dopo a chi vi parla Giovanni Bazoli che il vecchio patriarca Ludovico Montini si era “battuto come un leone” tra gli azionisti per offrire la direzione del Giornale di Brescia proprio al giovanissimo Walter Tobagi, “dimostrando – commentava Bazoli  – una lungimiranza e una levatura intellettuale che noi allora non avevamo capito…”

 

Concludo con un ultimo aspetto, profondamente cristiano, di Walter che appariva già ostico a chi gli era vicino e spesso del tutto incomprensibile per molti: ovvero quel suo innocente abbandonarsi fiducioso al mistero della Provvidenza. Sentiva comunque che era breve il tempo che gli era stato dato e, pur nelle sue umanissime paure e nella lucida consapevolezza del rischio, assicurava l’intenzione di non abdicare, di non sottrarsi alla responsabilità civile alla quale il suo lavoro e il suo impegno l’avevano portato. “Non mi perdoneranno – confessava nelle ultime settimane – di aver rotto il conformismo e l’unanimismo. Sia nelle analisi sulla galassia terroristica, che cerco di capire e di penetrare invece di limitarmi come troppi a maledire e a esecrare; e sia nel sindacato che ha anche bisogno di rotture democratiche per crescere e per svolgere davvero il suo ruolo civile. E io ho il torto di aver sollevato un velo e trovando il libero consenso di moltissimi colleghi, di aver dimostrato che un’alternativa è possibile. E per questo pago anche il prezzo di una ingiusta campagna di denigrazione…”. “Ma Walter, così isolato, così esposto, non ti senti abbandonato?” “No, Giuseppe, non mi sento solo: mi sento comunque nelle mani di Dio”.

 

 Giuseppe Baiocchi

 

 

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