Secondo una delle etimologie proposte per la parola, desiderium e desiderare si collegano con sidus,“stella”. In origine desiderio sarebbe propriamente la mancanza delle stelle nel cielo. La parola è collegata con la tecnica dell’augurio: nel mondo romano gli auguri sono sacerdoti (o sarebbe meglio dire tecnici) che hanno il compito di verificare, sulla base di un’interpretazione multipla di segni, se gli dèi approvano o meno una determinata decisione che si sta prendendo.
Desiderium e desiderare indicano un’insoddisfazione, la percezione di una mancanza: la mancanza di qualcosa che non si ha ancora o che non si può avere più. La parola si usa in relazione a oggetti e cose, ma spesso anche in relazione a persone. Desiderium è la nostalgia struggente per qualcosa o qualcuno che non si ha, è la sofferenza per la lontananza di una persona a cui si vuol bene, lontananza che in certi casi è definitiva, perché si parla di persone care venute meno. Cito un paio di passaggi che illustrano il valore della parola in latino e ne precisano il contesto. Uno è da una commedia del poeta arcaico Terenzio (Eunuchus 191): il protagonista sta per separarsi, sia pure per breve periodo, dalla donna amata, e così si accommiata da lei: «Mi chiedi che cosa vorrei? … che tu mi amassi notte e giorno, mi desiderassi, mi sognassi, mi aspettassi, sperassi in me, fossi la tua gioia, che tu fossi tutta con me: insomma, fa in modo di essere la mia anima, perché io sono la tua». Il secondo passaggio è da Orazio (Odi I 24): il poeta e i suoi amici sono addolorati per la scomparsa prematura dell’amico poeta Virgilio, e Orazio, sempre attento all’opportunità di essere moderati nei sentimenti e nella loro espressione, si chiede: «Che ritegno o che moderazione può esserci di fronte alla mancanza (desiderio) di questa persona tanto cara?».
Perché allora diciamo che desiderium “nostalgia, mancanza di stelle” è una parola chiave per definire l’esperienza dell’uomo antico? L’uomo antico è come un viaggiatore che non può orientarsi nell’oscurità della notte perché non ci sono stelle che ne illuminino la strada e deve fare affidamento solamente alle sue forze per trovare il cammino. L’esperienza del mondo classico, e segnatamente greco, è continuamente contrassegnata da questa caratteristica: il desiderio di capire, la sensazione di una incompiutezza, l’insoddisfazione che nasce dalla sconsolata conclusione che le sole forze dell’uomo non sono in grado di condurre a una risposta esauriente e soddisfacente a questa domanda fondamentale. Chi si trova in viaggio nella notte buia deve fare appello a tutte le risorse di cui dispone per tracciare la strada. Così è l’uomo antico. Privo di indicazioni valide, utilizza tutte le possibilità del sentimento e della ragione per procedere nella strada della vita.
La Grecia ha dato all’esperienza occidentale uno dei termini più nobili e ricchi di significato della nostra cultura, logos. Logos è la parola, cioè il mezzo con cui gli esseri umani comunicano fra loro e costruiscono e potenziano l’organizzazione del vivere civile, la parola che si fa ragionamento e che permette di affinare sempre più in profondità la conoscenza del nostro io. Ma dopo avere esplorato le potenzialità degli strumenti di cui si dispone, ci si accorge anche che questi strumenti sono insufficienti, ambigui e contradditori: anche il logos può essere usato in maniera distorta: vi sono ragionamenti cattivi che si affacciano con prepotenza e prendono il posto dei ragionamenti corretti. Procedendo nella notte buia càpita di non riconoscere le forme degli oggetti e di vedere fantasmi, ma nel medesimo tempo non si può fare a meno di desiderare la luce.
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Mi limito a un esempio di quanto detto attraverso il richiamo a una figura un po’ marginale e periferica, trascurata dalle stesse fonti antiche, ma interessante. Parlo di un generale greco ellenistico, Menandro, vissuto nel II secolo a.C., che a seguito di vicende militari complesse invase l’India, ne occupò una vasta porzione dell’area nord-occidentale, e stabilì un regno indo-greco che durò un paio di secoli dando luogo a un’esperienza breve, ma significativa di incontro e di integrazione fra due mondi culturali molto diversi. Secondo una fonte indiana che ci parla di lui (il Milindapañha), Menandro era talmente divorato dall’ansia di capire da cercare in ogni regione dell’India qualcuno che sapesse rispondere ai suoi dubbi e alle sue domande: «Molto rimane ancora del giorno: che cosa faremo ritornando ora in città? C’è qualche saggio samaĔa o brāhmaĔa o capo di una setta o arahat, un Buddha perfetto, il quale potrebbe conversare con me e dissolvere i miei dubbi? (…) In verità, signori, è una piacevole notte di plenilunio. Forse domani incontreremo un qualche samaĔa o brāhmaĔa cui porre domande. Chi è capace di conversare con me e disperdere i miei dubbi?». Questo è l’uomo greco! La sua ansia di capire, di sviscerare il significato delle cose appare talmente singolare agli occhi di quella cultura straniera, che, secondo il racconto del nostro testo, un antico saggio, già sottratto al ciclo delle rinascite e collocato in un mondo di deva, prossimo al nirvāĔa, fu quasi costretto a reincarnarsi per rispondere alle domande del saggio re.
Un’altra parola che può riassumere il senso dell’esperienza antica è la parola limite. L’universo in cui l’uomo greco vive è un affollarsi di forze e di spinte contraddittorie: il destino dell’uomo si chiama in greco moîra, cioè assegnazione di una parte all’interno di un contesto in cui a ogni essere e ogni potenza della natura è assegnato un ambito ben preciso. La Bibbia inizia con le parole «All’inizio Dio creò il mondo» e procede, di fronte a ogni atto della Creazione, con la formula «e vide che ciò era buono»: per l’uomo antico non solo è difficile concepire un Dio che crea il mondo dal nulla, ma nell’incertezza e nella nebbia di un inizio indistinto vi sono forze primordiali caotiche, in mezzo alle quali vagano mostri: solo dopo generazioni di lotte fra esseri divini si arriva all’equilibrio attuale e all’assestarsi di una giustizia che è pur sempre precaria, perché basta un gesto inconsulto dell’uomo per rimettere in discussione l’equilibrio raggiunto e costringere gli dèi a intervenire per riassestare il cosmo.
Ancora oggi il mondo è percorso da forze che mettono paura o danno adito a turbamento, e l’uomo è al centro di questo quadro. Nessuno meglio di Sofocle nell’Antigone (vv. 331 ss.) seppe esprimere questo concetto: «Molte sono le cose mirabili, ma nulla è più mirabile dell’uomo», dove a mirabile corrisponde nel testo greco un termine intraducibile in italiano (deiná), che suggerisce insieme l’idea del timore, della meraviglia, dell’eccezionalità.
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L’esperienza greca classica è intrisa di pessimismo. L’uomo è un essere effimero, e una delle parole che lo designano è brotós, mortale. La vita è breve, e i momenti in cui l’uomo può essere felice sono pochi e limitati: vi è una sproporzione tra il bene e il male nella vita dell’uomo: «Tutta piena di dolori è la vita dell’uomo, e non vi è alcuna requie agli affanni», affermava mestamente il poeta tragico Euripide (Ippolito vv. 189-190). E ancora: «Essere morti è meglio che vivere … Non vi è un solo uomo a cui Zeus non assegni dolore su dolore», dice un lirico greco, Mimnermo (framm. 2), ricordando che le generazioni umane sono come le foglie, che si susseguono una dietro l’altra, in un attimo di tempo. Ma ogni momento di godimento è offuscato dalla sensazione sempre incombente di una precarietà, di un declinare: «Beviamo, perché dovremmo aspettare fino alla sera? Lungo come un dito è il giorno», esorta un lirico greco, Alceo (framm. 346).
Il poeta tragico Sofocle dà la seguente definizione dell’uomo: «Io vedo che noi non siamo altro che forme, noi tutti che viviamo, nient’altro che vuota ombra» (Aiace v. 125). Anche negli autori dell’Antico Testamento troviamo definizioni altrettanto pessimiste dell’uomo e della vita umana. Il salmista dà una definizione non dissimile dell’uomo (Ps. 39 [38] 6-7, 12): « Ecco: in pochi palmi hai fissato i miei giorni, e la durata della mia vita è come un nulla davanti a te. Oh sì, come un soffio è ogni essere umano! Oh sì, qual ombra che svanisce è ogni mortale! (…) Oh sì, un soffio è ogni essere umano!».
Ma vi è una differenza essenziale tra l’uomo greco e l’uomo della Bibbia. L’uomo della Bibbia ha accanto a sé un Signore che ha stretto un’alleanza col popolo a cui appartiene e, sia pure in modo misterioso, in una storia non lineare, costellata di tradimenti e punizioni, è disponibile ad aiutarlo. Per l’uomo della Bibbia la volontà di Dio ha con sé tutti gli attributi positivi che l’esperienza umana può immaginare: è verità, bontà, misericordia, e soprattutto ha dato all’uomo una promessa e impegno definitivo di alleanza e di compagnia.
Per contro gli dèi dell’uomo greco hanno dei limiti, e sono sottoposti essi stessi, misteriosamente, a una legge che li trascende. L’uomo greco percepisce che esiste una legge eterna superiore agli stessi dèi. Zeus ha presso di sé, o forse al di sopra di sé, la Verità e la Legge, la applica e la attua nel mondo, ma non si identifica con essa.Come dice sinteticamente Euripide nella tragedia Ecuba, la legge è superiore non solo agli uomini, ma anche agli dèi: «Il potere l’hanno gli dèi e la legge, che è superiore a loro: in grazia della legge infatti noi onoriamo gli dèi» (vv. 801-2).
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Anche l’uomo greco intuisce l’esistenza di dèi che regolano positivamente il cosmo, ma tra questa rassicurante intuizione e l’esperienza concreta della vita c’è un abisso. Lo afferma poeticamente Euripide nella tragedia Ippolito (vv. 1302-6): «Il pensiero degli dèi, quando giunge al mio cuore, grandemente allontana i dolori. Ma sono abbandonata dalla speranza di capire, se guardo le sorti e gli eventi dei mortali: si volgono da ogni parte e si tramuta senza soste la vita umana nel suo continuo errare». Gli dèi possono intervenire nella vita dell’uomo, ma non sempre e non necessariamente in maniera positiva per aiutarlo e confortarlo.
L’uomo greco percepisce il fascino della razionalità e della bellezza, ma sente dentro di sé la presenza altrettanto imponente dell’irrazionale, forze tumultuose che non sempre si riesce a dominare. Nella sua ansia di capire, l’uomo cerca di utilizzare anche queste forze irrazionali come risorsa nella sua ricerca di senso, anzi ritiene che esse possano portarlo là dove la ragione da sola non è capace di arrivare. Platone ricordava nel Fedro che vi sono forme di pazzia (manía) che permettono all’uomo di percepire cose che la ragione da sola non sarebbe in grado di cogliere: l’amore, l’ebbrezza, l’esperienza mistica per esempio. L’estasi (ek–stasis) è appunto l’uscita da sé, un momento in cui l’uomo valica i limiti della razionalità per giungere a territori che ad essa sono preclusi.
Se la vita è piena di dolore e di amarezza, e se la ragione da sola non è capace di confortare pienamente un’esperienza umana cosciente del suo limite, che cosa può fare l’uomo in un quadro apparentemente così negativo? Innanzitutto, meglio vivere, come risponde tristemente a Odisseo l’amico Achille, quando nell’Odissea il protagonista lo incontra tra le anime dei morti (XI, vv. 471 e ss.): mille volte meglio trascinare una vita di stenti al servizio di un padrone, che essere grandi in un’eternità nebbiosa di fantasmi privi di consistenza. La vita è un valore e vale la pena vivere: se il dolore prevale sugli aspetti positivi, vorrà dire che si valorizzeranno questi ultimi nei brevi momenti in cui essi appaiono, o si cercherà di strappare al cupo procedere dei giorni qualche momento di felicità. Il greco ha una costante volontà di vivere, ha una vita sociale intensa, gli piacciono le feste e il vino. Si può sempre sperare che la benevolenza degli dèi si presenti apportando luce e dolcezza in questo quadro doloroso: «Effimeri. Che cosa è uno? Che cosa non è uno? Sogno di un’ombra è l’uomo. Ma quando giunge un raggio di luce divina, un luminoso splendore incombe sugli uomini e una vita dolce come il miele» (Pindaro, Pitica 8, 95 e ss.).
Riprendiamo il passaggio di Euripide citato prima: «Tutta piena di dolori è la vita dell’uomo, e non vi è alcuna requie agli affanni». Il poeta prosegue con queste parole: «Se vi sia un’altra esperienza migliore della vita, la tenebra la nasconde coprendola con nebbie. E siamo banalmente attratti da ciò che sfavilla sulla terra, perché non abbiamo esperienza di un’altra vita e non c’è rivelazione di ciò che sta sotto terra: siamo allo sbando per colpa dei miti» (Ippolito, vv. 189-197).
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Dunque, se desiderio significa percezione di una insaziabile finitezza, solo da un’iniziativa esterna all’uomo potrebbe arrivare una risposta alle domande che l’uomo si pone. Platone esprime questo stesso concetto in maniera più consapevole, quando, nel Fedone (85 c), Simmia ribatte gli argomenti di Socrate con queste parole: «Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d’altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell’uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare da altri come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l’opinione degli uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina».
Ma la speranza che questo desiderio si possa compiere è molto lontana. L’idea che Dio stesso possa scendere sulla terra e accompagnare gli uomini nel loro cammino è estranea al pensiero degli antichi. Il salmista può dire nella sua preghiera: «Dio degli eserciti, ritorna, guarda dal cielo e vedi, visita questa vigna» (Ps. 80, 15), ma per l’uomo greco c’è ben poca speranza che Dio possa scendere a visitare la nostra vigna. Certo, ci sono momenti in cui sembra che la distanza fra terra e cielo diminuisca: la sacerdotessa di Apollo a Delfi è preda del dio, che la fa vaticinare, vi sono racconti di uomini che pensano di avere intravisto qualcosa della realtà celeste, ma sono momenti che passano senza lasciare traccia o ricordo in chi li ha vissuti. L’uomo pagano non può pensare di abbassare il cielo fino alla terra come ha fatto il Cristianesimo. Anzi, varie scuole filosofiche che avevano confuso la felicità con l’imperturbabilità (uno è felice in quanto non si fa sconvolgere dal dolore presente nel mondo), avevano anche concluso che il dio non poteva farsi turbare dalle vicende tristi e meschine della vita umana, e quindi non poteva coinvolgersi e intromettersi nella vita degli uomini: col procedere del tempo gli dèi sono sempre più lontani dall’uomo e sempre più viene affermata la loro assoluta impossibilità di mischiarsi con le vicende umane.
La speranza che il dio si riveli è talmente lontana da un’esperienza che fa della ragione il suo perno essenziale, che quando Paolo annuncerà agli ateniesi che il dio ignoto si è fatto carne (At. 17), questi per la maggior parte ridono di lui, e solo pochi aderiscono alle sue parole. Il desiderio degli antichi non solo ha poche speranze di trovare il suo compimento, ma non è neppure totalmente disponibile ad accogliere chi questo compimento può donarglielo.