Forse la poliedricità del genio del beato John Henry Newman può indurre a sottovalutare la importanza strettamente filosofica della sua opera. Per stimarne con una certa precisione la grandezza, però, possiamo servirci di una misurazione spaziale in senso letterale e metaforico.  Infatti nella geografia della filosofia si potrebbe dire che il suo influsso si estende dall’area degli “analitici” a quella dei “continentali”.



È vero che tale binomio è asimmetrico perché il secondo termine indica un luogo, il primo una scuola. Ma il chiasmo può essere rettificato collocando con un po’ di approssimazione, da una parte, la filosofia analitica nell’area anglo-americana (che trova la sua ispirazione originaria nell’empirismo inglese), dall’altra parte, specificando che per filosofia continentale si intendono sostanzialmente la fenomenologia e la filosofia ermeneutica, regioni teoretiche indubbiamente caratterizzate dal peso preponderante tanto del primo che del secondo Heidegger.



Sul filo di questo ragionamento si può constatare che in queste aree hanno operato pensatori cattolici di straordinario valore, il cui pensiero ha in qualche modo tratto origine dal confronto con Newman. Forse non godono a volte della stessa notorietà dei “mostri sacri” loro contemporanei, ma questo certamente non può costituire un metro di valutazione filosofica. Nel versante della cultura anglo-americana giganteggia la figura di Bernard Lonergan, e allo stesso mondo nell’area continentale l’opera di Eric Przywara e di Edith Stein.

L’influenza di Newman su Lonergan è stata oggetto di approfondite riflessioni, dunque può bastare qui un accenno alla sua concezione del giudizio, che ha un valore strategico sia nell’epistemologia che nella metafisica. Il filosofo canadese oltre a recepire la distinzione di Gottlob Frege tra enunciato e giudizio, è espressamente ispirato dalla lettura di Grammar of Assent del cardinale oratoriano. Solo in questo modo il giudizio diviene culmine del comprendere riflessivo (“Conoscenza e interiorità”).



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Per quanto riguarda Przywara, è noto che tra i suoi primi impegni ci fu quello di ricopiare “passi cruciali” di grandi, come Newman e Agostino. Curò quindi un’antologia degli scritti del neobeato. Nell’ambito della sua produzione iniziale, Fondazione della religione prende in esame insieme all’opera di Max Scheler quella di Newman. Il rinnovato impegno speculativo della neoconvertita Edith Stein, poi, proprio su suggerimento di Przywara, prenderà le mosse dalla traduzione delle lettere di Newman. Przywara da Newman apprende “la bellezza dell’opporsi degli opposti”, che lo porta a sviluppare la sua “Analogia entis”, una via decisamente diversa dalla “contraddizione”, impiantata nella filosofia europea dalla dialettica hegeliana.

 

Forse proprio qui è da rintracciare quella radice profondamente cattolica che permetterà all’articolata sequela di Newman di costituire un filone vitale in una cultura di morte. A veder bene, l’originario “no” hegeliano si costituisce nel peccato originale, vera generazione dell’uomo nella sua filosofia. Ad esso la filosofia del “Veritatis investigator” (la definizione è di Pio XI), contrappone un “sì”, intercettato in tutte le fasi del processo conoscitivo. Un “amen”, si potrebbe quasi dire, che si staglia in tutto il suo valore al confronto della “neantisation”, onnipresente nella antropologia sartriana, e del “ni-ente”, via di accesso alla ontologia heideggeriana.

 

Don Luigi Giussani, che lo considerava “il più grande pensatore occidentale dell’Ottocento”, ne ha intuito molto acutamente la grandezza filosofica, quando ha osservato: “La vera conversione – diceva Newman – è la scoperta di una cosa che mi fa fare in modo più vero quello che desideravo prima”; “è la scoperta più profonda della verità che hai addosso” (Certi di alcune grandi cose).

 

 

 

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