Ci voleva David Cameron, primo ministro inglese, per dire che la religione è un elemento essenziale per costruire la trama e l’ordito del tessuto sociale. Certo, lo ha fatto di fronte al Papa di Roma, cercando di minimizzare quel venticello secolarista e anticlericale che da settimane spirava lungo la Manica e che, alla prova dei fatti, si è tradotto soltanto in qualche sporadica contestazione.
Sarà dunque per questo che Cameron lo ha detto. O forse per dare ancora più enfasi al suo progetto di “Big Society”, che tanto sta facendo parlare sull’Isola e in Continente, spingendo anche giornali di provata fede laica a interrogarsi, per una volta, sull’altro welfare possibile. Quello che, meno pomposamente da un bel po’ di tempo in più, nel nostro paese abbiamo definito “welfare della sussidiarietà”.
Ma non di questo vogliamo parlare. Quel che preme è sottolineare proprio quel concetto: la religione come fondamento del tessuto sociale. La traduzione non letterale potrebbe essere questa: se vogliamo che la società resista all’urto dell’individualismo radicale e libertario, ci vuole qualcosa che sia capace al tempo stesso di tenere insieme i pezzi e di educare le persone. Dunque, appunto, ci vuole la religione come parte integrante della vita sociale, riconosciuta come tale e non sottaciuta o nascosta agli occhi della meglio borghesia. Nessuna filosofia umanistica o umanitaria è capace di tanto.
Una verità semplice come l’acqua, ma ormai quasi indicibile. Chi si azzarda ad affermarlo in pubblico rischia infatti di essere subito redarguito e bollato di collateralismo con gli interessi corporativi più profondi della Chiesa e delle sue propaggini secolari.
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Ma Cameron è anglosassone. E in quel mondo, probabilmente, l’antica lezione di Alexis de Tocqueville non è mai stata dimenticata. Il giudice di rango, trasformatosi in sociologo quasi per caso, non poteva non notare con sorpresa, lui francese di inizio Ottocento: «Non appena in una piccola città o in una contea o persino a livello dello stato federale sorge un problema subito si trova un certo numero di cittadini pronti a raggrupparsi in organizzazioni volontarie, il cui scopo è quello di studiare ed eventualmente risolvere il problema. Si tratti di costruire un ospedale in una piccola città o di porre fine alle guerre, qualunque sia l’ordine di grandezza del problema, vi sarà sempre un’organizzazione volontaria che dedicherà tempo e denaro alla ricerca di una soluzione».
E un passo dopo l’altro il laico e liberale figlio della nobiltà francese doveva ammettere, oltre ogni ragionevole dubbio, che quella capacità di prendersi cura della comunità nasceva proprio dal profondo spirito religioso del quale l’America profonda era pervasa. Qualcosa di molto più complicato di una semplice religione civile, instrumentum regni per garantire al potere di perpetuare se stesso. Più semplicemente, la stoffa della società. Il fondamento del tessuto sociale, per l’appunto.
Una linea continua connette quel Tocqueville alle riflessioni più recenti, sviluppatesi soprattutto negli Stati Uniti grazie a monumenti conservatori come Robert Nisbet o a movimenti di pensiero bipartisan come quello new-communitarians degli Etzioni e dei MacIntyre. In tutti, la stessa preoccupazione: non si costruisce comunità senza religione. E senza comunità non può reggere l’intera impalcatura della società moderna.
David Cameron, con una certa dose di coraggio, ci ha riconsegnato questa tradizione e proverà a rimetterla in azione, restituendo a questo sentiero interrotto del pensiero moderno la dignità politica e pubblica che merita. Niente di nuovo, ovviamente, per gli amanti della sussidiarietà. Ma è un premier britannico a dirlo, e questo, tutto sommato, è una notizia da non sottovalutare.