«La grande sfida culturale, che richiede lo sforzo comune delle menti più lucide di musulmani, cristiani ed ebrei è quella di mostrare che i diritti umani non sono un’invenzione occidentale. Esiste la possibilità, attraverso l’interpretazione di alcuni versetti del Corano, di dedurre la libertà religiosa. Il Corano in alcuni punti apre ai diritti umani, solo che non lo si dice perché la libertà religiosa è contraria alla sharia. E così è la sharia a prevalere». Lo dice al sussidiario Samir Khalil Samir, gesuita e teologo egiziano, tra ai massimi esperti del mondo islamico.
Molte prese di posizione si sono susseguite alla strage di cristiani ad Alessandria d’Egitto del primo gennaio; quella che ha suscitato più dibattito è stata quella del grande imam di Al Azhar, Ahmed Al Tayyeb.



Padre Samir, perché il Papa non può chiedere protezione per i cristiani senza essere rimproverato di ingerenza, visto che lo stesso imam afferma che «i cristiani sono una componente essenziale delle loro società di appartenenza»?

«Sentiamo continuamente dire dai musulmani che i copti sono cittadini autentici della società egiziana – afferma padre Samir – e che la Costituzione non fa alcuna distinzione tra loro e i musulmani. In realtà questo non è vero per niente. È vero che in Egitto non c’è persecuzione, ma la discriminazione c’è. Di essa però i musulmani non sono consci».



Com’è possibile?

«Cito sempre quello che mi è capitato durante una lezione di filosofia araba all’Università del Cairo. Esaminando un testo del IX secolo, affronto il tema dell’uguaglianza dentro e al di fuori dell’islam. Ma come – mi sento chiedere – lei condivide la tesi che l’islam fa discriminazione? Sì, rispondo io, e porto una serie di esempi dalla vita quotidiana. che lo dimostrano.  Ebbene, nessuno ha battuto ciglio. Alla fine uno ha detto: è vero, professore, non me se sono mai accorto. In aula c’erano sedici persone, non comuni studenti ma tutti laureati o perfino docenti».



Dunque dipende da un profondo retaggio culturale.

«Sì. Una forma mentis di cui un musulmano non si rende conto, perché il Corano distingue chiaramente tre categorie di persone: i musulmani, che appartengono alla Umma, poi gli ebrei o i cristiani – i dhimmi in termini giuridici – e infine i miscredenti (kuffâr). Questi ultimi non hanno nessun diritto di vivere come i musulmani: devono o convertirsi o essere uccisi. Oppure, ovviamente, andarsene. I dhimmi, essendo credenti in Dio e avendo ricevuto le Scritture, hanno diritto di vivere con i musulmani, purché – dice il Corano – paghino il tributo essendo sottomessi – o meglio, la parola sâghirûn vuol dire essendo umiliati. Se noi collochiamo tutto questo nel contesto socioculturale e politico del VII secolo non è così sorprendente, perché i cristiani furono sottomessi all’impero politico islamico, e il sottomesso in quanto tale doveva pagare il tributo. Il problema è che i musulmani non hanno ancora capito che dall’ottocento – e in particolare dalla caduta dell’impero ottomano nel 1923, e con l’abolizione del califfato il 3 marzo 1924 – c’è stata una trasformazione che ha portato con sé nuove categorie, una delle quali è quella di cittadino. Che implica parità totale».

La sharia ha in sé lo spazio per un’apertura reale alla libertà religiosa?
 

«Com’è capita oggi, no. Libertà religiosa significa libertà per un musulmano di diventare cristiano, per un cristiano di diventare musulmano, o ateo e viceversa. In pratica significa che ognuno è libero di decidere in coscienza. Ora, il Corano condanna chi abbandona l’islam, o per un’altra religione o per tornare all’empietà, al politeismo. È una cosa che biasima, ma non dice che dev’essere punito. Oggi invece la sharia dice: dev’essere ucciso».

Anche in uno stato moderno come quello egiziano?

«È una legge che viene applicata in Arabia Saudita, in Iran, in Pakistan, in Sudan e non solo. In Egitto non è previsto dalla Costituzione del 1923 che è assai laica, ma è la società a farlo: spesso è la stessa famiglia a uccidere. Esattamente come avviene in Italia o in Germania in quei casi di cronaca che sconvolgono l’opinione pubblica. Quando un pakistano uccide la figlia perché vuole sposare un italiano, secondo una mentalità che applica la sharia alla lettera questo è perfettamente logico. Se la donna sposa un italiano, che è presupposto essere cristiano perché siamo in occidente, ciò vuol dire che lei si prepara a seguire il marito e dunque a diventare cristiana anch’essa».

Dunque se non è legge dello Stato vale la tradizione.

«Sì. Il concetto di libertà religiosa è lontano dall’essere accettato, anche in un paese laico come la Turchia. Anche la Tunisia per esempio è laica, ma lo tollera con molta difficoltà».

«Dio ha creato la gente diversa perché si possa incontrare – ha detto Wael Farouq a questo giornale -. Ci ha fatti così perché la differenza è il volto della conoscenza. Io non potrei vivere allo stesso modo se non ci fossero i cristiani in Egitto: come musulmani siamo orgogliosi di loro e del ruolo della Chiesa nella storia del nostro paese».

«Conosco bene Wael, siamo amici e posso dire che è un musulmano eccezionale. Ha compiuto un difficile percorso personale, da fanatico seguace dei Fratelli musulmani è divenuto un musulmano aperto. Magari fossero tutti come lui: purtroppo non è così».

Quella di Farouq è senz’altro un’affermazione pratica del principio di laicità. Ma perché fatica così tanto ad imporsi teoricamente?
 

«C’è una possibilità, attraverso l’interpretazione di alcuni versetti del Corano, di dedurre la libertà religiosa. Il Corano dice che non si può costringere la persona a credere. Se Allah avesse voluto, saremmo stati fatti tutti uguali, ma così non è stato».

Quindi la grande sfida è quella dell’interpretazione del Corano.

«Certo. Ed è quello che alcuni stanno cercando di fare, ma è un lavoro molto difficile perché tutta la tradizione è contraria. Il termine tecnico è  igtihâd, cioè lo sforzo dell’interpretazione. È un compito immane, perché dal XII secolo i musulmani dicono che la porta dell’interpretazione è chiusa. Ma perché e chi abbia il diritto di chiuderla, nessuno sa spiegarlo».

L’occidente – ha detto il card. Scola in un’intervista al Corriere della Sera – ha il compito di mostrare «il bene pratico dell’essere insieme»: se questo riesce in Europa, può diventare paradigma anche per altri. Secondo lei è possibile? E cosa comporta?

«Si tratta di un lungo lavoro che chiederà più generazioni. La sua strada maestra è quella dell’educazione dei giovani. Essa richiede però una rivoluzione, basata sui diritti umani, intesi come quel fondamento che permette a tutti gli esseri umani di ritrovarsi sulla base di alcuni comuni principi: la dignità trascendente della persona, la sua apertura la Mistero – per usare le parole di Benedetto XVI nel Messaggio per la giornata mondiale della pace -. E con essa la libertà religiosa, che sta all’origine della libertà morale. O l’uguaglianza delle persone indipendentemente dal sesso, dalla razza dalla religione».

E per questo occorre riaprire quella «porta dell’interpretazione» che lei ha detto essere stata chiusa?

«Sì, ma perché non lo si fa, nonostante tanta gente sia conscia della sua necessità? Perché i diritti umani su alcuni punti confliggono con la sharia per come di solito è interpretata. L’uguaglianza uomo-donna va contro alcuni versetti del Corano in cui si dice che Dio ha creato l’uomo e la donna, ma che tra di loro c’è un “gradino” che li diversifica (Corano 2,228); come c’è un gradino tra chi non combatte e i mugiâhidûn che combattono (Corano 4,95; 9,20; 57,10). Su questo gradino (daragia) i commentatori hanno costruito un muro. Se prendiamo il versetto nel suo contesto storico, capiamo che l’uomo deve il proprio primato al fatto di mantenere la famiglia: ma questa era la realtà in Arabia nel VII secolo. Il Corano in alcuni punti apre ai diritti umani, solo che non lo si dice perché la libertà religiosa è contraria alla sharia. Ed è la sharia a prevalere».

Da dove si può cominciare?
 

«Quei musulmani, quei cristiani e quegli ebrei che sono credenti ma non pregiudizialmente ostili alla modernità devono mettersi insieme e cercare tutto quello che, nelle rispettive tradizioni e Scritture, conferma la Dichiarazione universale dei diritti umani. La posta in gioco è mostrare che i diritti umani non sono un’invenzione occidentale, anche se è stato l’occidente a metterli nero su bianco nella Dichiarazione del 10 dicembre 1948».

Non si potrebbe invocare anche per l’islam la stessa secolarizzazione che ha investito l’occidente, lasciando ad essa il compito di allentare la «morsa» dei principi assoluti?

«No, perché la secolarizzazione avrebbe come unico risultato di favorire il fondamentalismo. Appena i musulmani sentono le parole secolarizzazione e laicità si ribellano, perché per loro laicità è sinonimo di ateismo. Laicità evoca ciò che essi vedono dell’Europa, cioè l’assenza di religione o peggio la lotta contro di essa, com’è avvenuto nei confronti della ribellione moderna contro la religione e la Chiesa. So bene che questa non è laicità, ma laicismo… Pensi che il corrispondente del termine laicità è ‘almâniyyah, ma non è usato».

Una domanda provocatoria. Possono «insegnare» qualcosa i fondamentalisti all’occidente?

«La priorità di Dio e di una legge che ci supera. Dicendo questo è come se dicessero che esistono delle cose assolute, che non tutto è relativo, e proclamassero la salvaguardia di ciò che è intoccabile. Il loro errore si può considerare diametralmente opposto a quello di un certo occidente: se l’occidente relativizza tutto, loro assolutizzano tutto e la vita diviene una variabile dipendente della dottrina. Il mondo islamico non deve invece essere condotto ad assolutizzare la religione o la sharia, ma a distinguere: che cosa è realmente “intoccabile”, sotto le differenze culturali?»

Youssef Boutros-Ghali è intervenuto in questi giorni sugli attacchi alla chiesa di Alessandria, dicendo che l’attentato mirava a scatenare la guerra tra cristiani e musulmani, ma ha ottenuto l’effetto opposto, riavvicinando le due confessioni religiose. Che ne pensa?

«C’è del vero. Ho sentito che i musulmani in Egitto sono andati in molti casi a proteggere le chiese dei cristiani. Possiamo solo desiderare che questo movimento prenda forza, favorendo la presa di coscienza dei musulmani che noi siamo un solo popolo».

La serie di attacchi contro i cristiani «appare sempre di più come un piano particolarmente malvagio di pulizia nel Medio oriente, pulizia religiosa» ha affermato il presidente francese Sarkozy nel suo discorso di inizio anno ai leader religiosi del Paese. È d’accordo?
 

«È  lo scopo del movimento che rivendica di essere la Al Qaeda irachena e che vuole  un califfato islamico iracheno. Ma non conosco un’altra situazione dove si possa parlare di pulizia religiosa. Non è certamente il caso dell’Egitto».

E di un disegno unitario che mira a consolidare la Umma buttando fuori i corpi estranei, cioè i cristiani, come ha sostenuto venerdì anche Vittorio Messori sul Corriere?

«Esiste ma non è certamente generalizzato. Sono gli estremisti degli estremisti che mirano a questo, ma la mia esperienza mi dice che la stragrande maggioranza dei musulmani vuole la convivenza con i cristiani. Lo abbiamo sentito in questi giorni anche da Muhammad al-Sammâk, portavoce dei sunniti del Libano. E in Giordania per esempio è ormai chiara la consapevolezza che la società islamica ha bisogno dei cristiani come fattore di apertura alla modernità».

(Federico Ferraù)