La pubblicazione per i tipi di Laterza dell’ultima fatica storiografica di Jacques Le Goff sullo sterco del diavolo (sottotitolo “il denaro nel Medioevo”) ha animato un interessante ed eclettico dibattito acceso da un intervento di Giuseppe Galasso sulle pagine del Corriere della sera, in parte critico rispetto alle tesi sostenute dallo storico francese.
Mentre l’oggetto del contendere potrebbe apparire una questione per soli medievisti, in realtà molti temi richiamati nel batti e ribatti tra i due eminenti studiosi sollecitano alcune fugaci riflessioni anche per lo storico economico e sociale che si muove tra età moderna ed età contemporanea. Questo è vero ancor più laddove si considerino due aspetti che meritano d’essere evidenziati rispetto a quanto già esplicitato nella citata querelle.



Anzitutto è possibile – anzi a ben vedere appare doveroso – richiamare anche solo per cenni il pensiero di Giuseppe Toniolo (1845-1918, economista di imminente beatificazione) e, di riflesso, quello di Amintore Fanfani (1908-1999, storico dell’economia in Università Cattolica, prima ancora che statista democristiano), i quali in stagioni diverse della storiografia italiana hanno affrontato il delicato tema delle origini dell’economia capitalistica, individuando proprio l’età basso medievale come particolarmente decisiva al riguardo.



Un recentissimo studio sintetico di Paolo Pecorari (Alle origini dell’anticapitalismo cattolico. Due saggi e un bilancio storiografico su Giuseppe Toniolo, Milano, Vita e pensiero, 2010) può aiutare a meglio inquadrare l’approccio cristianamente ispirato dei due autori. Essi infatti, anche se con sfumature metodologiche ed in parte contenutistiche differenti, superano le visioni di Sombart e Weber favorevoli a riconoscere nella Riforma protestante la molla che fa scattare il capitalismo moderno, retrodatando questa matrice originaria proprio all’epoca medievale dove anzi si potevano individuare per certi versi i caratteri della vera economica capitalistica, non prevalentemente speculativa bensì più rivolta “a tenere alto l’uomo di fronte al capitale”. Il capitalismo moderno – deformato dal suo legame col profitto e con la ricchezza che da mezzo diventa fine – si consolidava invece in seguito all’affermarsi dei valori dell’Umanesimo e del Rinascimento, poi declinati in una progressione ulteriore che conduce all’oggi. 



In secondo luogo appare evidente come le questioni sollevate da Le Goff, e ulteriormente considerate con accenti critici da Galasso, ma anche il riferimento agli autori prima citati, si rispecchiano nelle più recenti inquietudini interpretative che contraddistinguono la comprensione della natura, dei limiti e delle prospettive del moderno turbo-capitalismo, per come è stato definito da Giovanni Bazoli ed Ernst-Wolfgang Bockenforde (in Chiesa e capitalismo, Brescia, Morcelliana, 2010). Se infatti per il medievista francese l’economia europea fino al secolo XII compreso rimane avvinta da una prevalente logica del dono (senza pensiero economico specifico e strumenti di crescita adatti, denaro compreso), oggi in molti ambienti si richiama invece l’importanza proprio del tema della gratuità, della costruzione di relazioni (positive) prima ancora che di beni e servizi, attualmente scambiati per mezzo di uno strumento monetario sempre più labile e per questo instabile.

In tale direzione si muovono gli studi economici di Stefano Zamagni, di Luigino Bruni, e recentemente anche quelli di Stefano Bartolini, il quale nel suo Manifesto per la felicità (Roma, Donzelli, 2010) riconosce l’importanza di superare il capitalismo spurio dell’economia globale muovendosi verso un’economia relazionale che recuperi i virtuosismi di una richiesta di ben-essere (e non di ben-avere) che appartiene da sempre all’uomo.

Anche la poliedrica produzione sociologica dedicata al dono ed alle sue dinamiche nella circolazione sia di beni che soprattutto di legami umani ha trovato nei lavori di Jacques T. Godbout (si veda ad esempio il bel saggio Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare, Milano, Vita e pensiero, 2008) un motivo in più per inserirsi in questo dibattito. L’opera dei corpi intermedi come le associazioni di volontariato e gli stessi istituti religiosi, infatti, si affermano nella vita di tutti e di ciascuno proprio come “beni non contrattuali”, non monetizzabili ma inquadrabili come “immissione in circolo” di contatti, rapporti, relazioni appunto che si muovono intessendo una fitta trama di legami virtuosi nelle comunità coinvolte, legami liberi perché non determinati dal mercato oppure dalla redistribuzione pubblica, legami necessari per l’esistenza dell’uomo, della famiglia, di tutto ciò che si pone tra la persona e lo Stato.

Lo stesso concetto di “capitale sociale” cambia aspetto in questa prospettiva, dovendo fare i conti con i contributi di singoli ed enti donati per se stessi e non nell’ambito di una decisione rispondente a logiche di mercato, producendo d’altro canto un di più di condivisione e di dialogo che costituisce un punto di forza nelle società coinvolte da tale processo.
Dal Medioevo all’oggi, dunque, ma anche al domani, alla ricerca delle origini e quindi del profilo del vero capitalismo, che non poteva e non può prescindere dalla caritas cristiana.