Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono finalmente nel campo di sterminio di Auschwitz, mettendo fine alla più turpe e orrenda prigionia mai concepita dall’uomo. Per noi italiani l’esercizio della memoria è reso più facile dal racconto di Primo Levi, uno dei più grandi scrittori del Novecento. E allora, torniamo a leggere qualche pagina di quel capolavoro unico che è Se questo è un uomo e in particolare l’ultimo capitolo intitolato: “Storia di dieci giorni”.



In esso Levi racconta passo passo la capitolazione nazista, che inizia con la terribile marcia forzata organizzata dei superstiti ancora sani, fra di loro Alberto: “E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo i due italiani, e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano le parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati”.



Il giovane Primo ha preso la scarlattina pochi giorni prima, è malato e viene messo nella baracca degli infettivi, apparentemente sembra una disgrazia (a contatto coi malati di tifo e difterite)  e invece sarà una delle sue fortune. I nazisti evacuano il campo e portano il grosso dei detenuti a morire nella neve, fuggendo l’Armata Rossa. Per chi è inchiodato a letto inizia una surreale fase finale della vita di Auschwitz, dove si continua a morire, magari per una stupidaggine, ma dove l’assenza degli aguzzini e il rumore dei cannoni sovietici rianimano i sopravvissuti.

Levi annota, giorno dopo giorno, cambiamenti enormi, repentini, colpi di scena che scuotono le ombre, le diafane presenze umane dei detenuti del lager troppo deboli per essere trasportati. Eppure ancora vivi. La prima stufa recuperata e portata in baracca, la batteria che dà luce, la zuppa cucinata con patate e rape ritrovate (congelate) nelle vecchie cucine del campo…



Ad un certo punto Levi si accorge che anche lì, ad Auschwitz, il meccanismo della persona umana si è rimesso in moto: "A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l’orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell’orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa". E così fecero.     

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