Non è facile fare i conti col male che segna la storia degli uomini. Tanto più il male è grande e tanto più sembra incomprensibile, assurdo, angosciante. Di fronte a interi popoli condotti al macello, semplicemente perché ritenuti indegni di abitare la terra, la mente e il cuore entrano in subbuglio; non ci sono categorie intellettuali – forse nemmeno quella di “male assoluto” – capaci di esprimere certe tragedie. Ma una cosa possiamo e dobbiamo fare sempre: ricordare; non permettere che l’oblio cada sulla sofferenza inaudita che alcuni nostri simili hanno subito per colpa di altri simili, né permettere che questa sofferenza possa diventare un pretesto per rimanere prigionieri del passato. A questo deve servire la “giornata della memoria” che celebriamo oggi.



Hannah Arendt, proprio pensando alla Shoah, ha scritto da qualche parte che c’è un male che non può essere perdonato, perché non sappiamo neanche come potrebbe essere adeguatamente punito. Usando l’immagine evangelica, meglio sarebbe che coloro che lo hanno commesso non fossero mai nati o che fosse stata legata loro al collo una macina da mulino e gettati nel mare. Parole che turbano e che sento di condividere nel profondo del cuore. Il martirio di un popolo e di tanti popoli deve diventare occasione di una vera e propria pedagogia civile, ricordarlo un modo per dire a noi stessi e alle persone che abbiamo vicino che non succederà più, almeno per quel poco o tanto che sarà in nostro potere. In questo senso la “giornata della memoria” ci orienta al futuro, tremanti e fiduciosi che i nostri figli non abbiano mai a vedere e subire ciò che altri figli, innocenti come loro, hanno invece visto e subito.



Ma la “giornata della memoria” non può essere soltanto questo. Essa deve essere in qualche modo anche una giornata del perdono e della riconciliazione. Non con i carnefici e gli assassini, ma con noi stessi, con i nostri contemporanei e con le generazioni ci hanno preceduto. Lo dobbiamo in primo luogo alle generazioni future, non fosse altro per non tenerle incatenate agli errori e agli orrori commessi da coloro che sono venuti prima. Del resto solo così la “giornata della memoria” può essere un gesto che, anziché limitarsi a una pur mobilissima “reazione”, mette in moto qualcosa di veramente nuovo e imprevisto.



Un po’ come l’apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l’incantesimo, gli uomini tendono purtroppo a perpetrare la catena dell’odio e della vendetta. In questo modo, però, è sempre Hannah Arendt a dirlo, essi restano “per sempre vittime” delle conseguenze delle loro azioni; la stessa memoria si incancrenisce. Il perdono ristabilisce invece l’alleanza con le generazioni presenti e con quelle passate. Non può esserci libertà nell’odio e nella vendetta; reagire con l’odio all’odio di un altro è, potremmo dire, meccanico, addirittura naturale. Ciò che invece può rompere il meccanismo prevedibile dell’azione-reazione è imprevedibile e liberatorio perché veramente frutto della libertà: io ti perdono la sofferenza che mi hai procurato. È un’altra storia che incomincia.  Auguriamoci che la “giornata della memoria” serva anche a questa catarsi culturale e civile, di cui abbiamo tutti bisogno.

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