Continua a far discutere la vertiginosa Leggenda del Grande Inquisitore, che Dostoevskij ha incastonato ne I fratelli Karamazov, suo ultimo romanzo, sua ultima sfida, senza umano rispetto, alla coscienza europea. Il drammatico faccia a faccia messo in scena dalla Leggenda – protagonisti assoluti il vecchio cardinale spagnolo costantemente a caccia di eretici e il Figlio di Dio tornato sulla terra e fatto arrestare proprio dal geloso e occhiuto ecclesiastico – non ha perso la sua forza d’impatto. Evidentemente, la posta in gioco di queste pagine è ancora attuale. In che termini, oggi, la si può definire? 



Non c’è dubbio che uno dei poli attorno a cui la Leggenda gravita sia il dono della libertà; impegnativo, enigmatico dono, tanto da apparire piuttosto un fardello. Non è meglio barattarlo con più tollerabili surrogati? Così ritiene, nella sua decrepita saggezza, il Grande Inquisitore. Quali esattamente siano, queste alternative che tentano le maggioranze ottuse e fiacche e appaiono a misura delle umane possibilità anche alle menti più sagaci, Dostoevskij lo segnala con chiarezza, e bisogna essere leali con le sue indicazioni, recepirle nella loro precisa fisionomia, per riuscire all’altezza del paragone con lui, qualunque cosa si pensi dell’analisi che propone.



Primo succedaneo, dunque, il benessere, ciò che l’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo designa come “pane”, l’indiscutibile pane terreno. È questo lo slogan dei sediziosi, il motto destinato a campeggiare su tutte le bandiere eversive. “Passeranno i secoli”, annuncia il Grande Inquisitore dalla sua specola controriformistica, “e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati”. Riduzione del desiderio in nome di una pretesa sollecitudine; caricatura del bisogno e della stessa attenzione al bisogno, la quale nelle sue forme autentiche accorre al fianco delle necessità immediate destando al tempo stesso l’avvertimento di quelle più radicali, aperte verso l’infinitamente grande.
 



Ma l’infinito non è la prospettiva dei rivoluzionari, i quali si preoccuperanno esclusivamente, senza peraltro riuscirvi, di ridistribuire i beni della terra; e non è nemmeno l’orizzonte del Grande Inquisitore, ancor più scettico sulla natura umana e persuaso che all’indomani delle rivoluzioni fallite scoccherà di nuovo la sua ora. Saranno i suoi eredi a prendersi carico con successo delle necessità degli uomini; i quali, da parte loro, diverranno docili e remissivi pur di essere rifocillati. È così che si serve e si governa il genere umano, saziando la sua fame. A patto, beninteso, di sedare anche l’inquietudine della sua coscienza. Il Grande Inquisitore, infatti, è consapevole che la sola offerta del pane sarebbe insufficiente: anche nei deboli e negli inetti la coscienza sopravvive. Occorre, allora, lusingarla.

A questo valgono “saldi principi morali”, in grado di “acquietare la coscienza umana una volta per sempre”: una ripresa, dopo Cristo, della “salda legge antica”, dalla quale Cristo si era allontanato. Si sta profilando abbastanza chiaramente, a questo punto, la fisionomia del personaggio dostoevskiano: se egli vuole tranquillizzare le moltitudini, e non c’è dubbio che sia questo il suo obiettivo, si ripromette di farlo attraverso un sistema di sicurezze materiali rinsaldato da una tavola di valori e di norme, con esclusione di ogni rischio, intrapresa, creatività, di ogni avventuroso azzardo d’amore. Sistema talmente perfetto che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono, secondo l’efficace formula del poeta T.S. Eliot; e tutti, aggiungiamo, sarebbero unicamente preoccupati della propria correttezza.

Ma la correttezza, come ogni regolare meccanismo, ha bisogno di inserirsi entro un meccanismo più ampio, entro un vasto ingranaggio perfettamente solidale, dove ogni pezzo, mentre svolge in maniera esatta la sua predestinata funzione, sia assecondato dagli altri pezzi, in un’inappuntabile esecuzione collettiva del programma generale. Matura così l’ultimo tocco del gigantesco progetto: l’Inquisitore ha in serbo l’annuncio di un’utopia ecumenica, di una “unione mondiale e universale” che instaurerà fino agli estremi confini della terra “il regno della pace e della felicità”, senza attriti, conflitti, esclusioni, “in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde”. Superfluo postillare che in una simile uniformità non sarà consentito a chicchessia rivendicare il proprio volto, andare controcorrente.
 

Quale significato conserva per noi la Leggenda, che risale, col romanzo in cui è inserita, allo scorcio finale dell’Ottocento, dove erano in incubazione le convulsioni poi esplose nel secolo successivo? Forse sarebbe più giusto chiedersi se l’invenzione di Dostoevskij acquisti significati ulteriori nel momento in cui ci raggiunge. Raffigurando il Grande Inquisitore, il romanziere russo polemizzava certo coi gesuiti; al tempo stesso, come risulta anche dal suo epistolario, prendeva di mira il socialismo (conferendogli, a detta di Henri de Lubac, una venatura positivistica, tanto che il protagonista della Leggenda e i suoi accoliti finiscono per somigliare ai servitori dell’Umanità vagheggiati da Augusto Comte).

Ma il senso di un testo non è interamente dispiegato in origine, cresce nel rapporto con situazioni inedite, con lettori appartenenti a nuovi contesti; e non è arbitrario scorgere nella Leggenda una potenziale anticipazione dell’odierna riluttanza all’iniziativa e alla scommessa, una profezia in germe della nostra aspirazione a trattenere una cornice di garanzie, non importa se a scapito del desiderio, censurato e ridimensionato. In luogo della responsabilità personale, il ricorso a reti protettive; al posto dell’amore e della sua inventività, il binario delle regole. E nessuno venga a scuoterci, le nostre guide stabiliscano piuttosto le precise condizioni in grado di assicurare, se coscienziosamente ottemperate, il mantenimento dello status quo. Basterà che ciascuno, nel proprio ambito, le rispetti, in solidale concordia con gli altri. Con tutti. Con l’universalità degli uomini di un mondo omologato, dove vigono dappertutto le stesse, ben riconoscibili, procedure. Se questa interpretazione della Leggenda è plausibile, Dostoevskij si rivela, ancora oggi, altamente nutritivo.

Ma il segreto della Leggenda sta in un punto ulteriore, che poi è quello che la regge interamente. Il sotterraneo lavorio del romanziere a scapito del suo protagonista, la smentita dell’Inquisitore verboso attraverso la stessa enormità delle sue parole, non comporta appena un’implicita rivendicazione della libertà rispetto alla legge. Si tratterebbe di una controproposta ancora astratta; e tutto sommato insostenibile. Dostoevskij è su un’altra lunghezza d’onda, non per caso pone il Grande Inquisitore al cospetto di un altro personaggio, sempre silenzioso, ma non per questo inattivo. Le sue rauche frasi, non dimentichiamolo, il cardinale di Spagna le pronuncia di fronte a Cristo, divenuto suo prigioniero. Non è certo un elemento del testo dal quale si possa prescindere, fino a trascrivere le battute dostoevskiane in chiave esclusivamente secolare, quasi fossero un preludio alle filosofie novecentesche dell’arbitrio (quando invece prevengono il riflusso dell’arbitrio nella sudditanza al regime politico, violento o morbido che sia), o comunque si prestassero a una qualsiasi ricodifica di stampo naturalistico.
 

Il fatto è che la libertà dispone di una vera chance solo di fronte al Figlio di Dio, che l’ha abilitata rompendo i sigilli di una legge incombente. O meglio, la libertà è nella Leggenda il necessario margine di gioco in cui si muove l’affezione, che è calamitata non da un ideale, o da una nostalgia, o da un progetto, ma da un’irrecusabile presenza; questo, per lo scrittore, è assunto non negoziabile, e la nostra interpretazione è tenuta a prenderne atto. “Tu”, esclama lo spietato ma lucidissimo prete, rivolgendosi all’insolito interlocutore, “volesti il libero amore dell’uomo, perché ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene e che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine”. Si sottragga all’affermazione l’ultimo segmento (è stato già fatto), ed essa non solo muterà natura, ma non riuscirà a reggersi; come l’Inquisitore stesso aveva sagacemente previsto, col suo annuncio dell’inevitabile schiavitù dopo la pretesa dell’anarchia; come la storia ha quindi provveduto a confermare, lungo i suoi ben noti percorsi novecenteschi. Ciò che l’Inquisitore non aveva messo in preventivo è la reazione dell’accusato all’implacabile requisitoria: “Il Prigioniero l’ha sempre ascoltato (…). Ma tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta”.

All’indomani del XX secolo e dei suoi totalitarismi, ci muoviamo entro paesaggi meno terrificanti; anche se abbiamo ragione a temere le forme blande e insinuanti che il potere adesso assume. Il metro con cui misurare il potere è peraltro la sua disponibilità a rispettare e favorire la libera mossa del soggetto. Sempre che questa mossa ci sia. Non è detto, insomma, che la vera insidia venga dal di fuori, e non piuttosto dalla nostra riluttanza a scegliere e a giocarci, dall’inconfessata tentazione di riposare in alvei predefiniti e sicuri, al riparo da brusche novità e spiazzanti sorprese, magari grazie a uno Stato in veste di tutore benevolo, che senza farlo pesare indirizzi e sorvegli i passi, promettendo in cambio di coprire tutti gli incerti, di ammortizzare anche gli infortuni più temibili.

Ecco: Dostoevskij costituisce un formidabile antidoto contro ogni statolatria. Non per questo combacia con un puro liberalismo sciolto da ogni riferimento assoluto; semmai ritrova le radici da cui l’idea della libertà, in Europa, si è storicamente sviluppata. 
 

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