Che la Chiesa abbia promosso a Roma un Convegno sull’unità d’Italia è certo un fatto significativo e, indubbiamente, inusuale. Lo scopo infatti, rispetto al passato, non è certo quello di legittimarsi, di fronte allo Stato, come parte integrante del corpo nazionale. Non ne ha bisogno. Si tratta di altro. In un momento in cui Un disperato qualunquismo, per dirla con Galli della Loggia (Corriere della Sera del 30 dicembre), è il chiaro sintomo di una disaffezione dalla politica, dal Paese, dalle istituzioni pubbliche, avvertite ad una distanza siderale rispetto alla realtà, la Chiesa “sente” questo scollamento, questo processo di disaggregazione, di disunione, di paura, di mancanza di speranza.



Senza scomodare la “società liquida” di Bauman è evidente a tutti che lo spirito di solidarietà, di condivisione di un comune destino, si è fatto tenue. Né la retorica nazionale, invocata da taluni per i 150 anni dell’Unità, può avere un qualche peso al fine di una possibile inversione di rotta. In Italia l’idea di nazione, nella sua forma risorgimentale, è morta nel 1943, con la caduta del Regime prima e la fuga del re poi. Per questo il patriottismo risorgimentale invocato da Carlo Azeglio Ciampi, come ha dichiarato lo storico dell’Università di Pisa Alberto Maria Banti nel suo Nel nome dell’Italia appena edito da Laterza, è fuori tempo massimo.



Non è più il tempo dei miti. Come la storiografia ha appurato da tempo, il fascismo non si è solo “appropriato” del Risorgimento, dell’idea di nazione, della rivoluzione mazziniana, ecc. Ne è stato anche la continuazione. Il processo di nazionalizzazione delle masse, iniziato dal Risorgimento e proseguito dallo Stato liberale, è continuato nell’educazione nazionale del fascismo. Per questo la celebrazione “mitica” del Risorgimento, con le sue classiche icone Cavour-Mazzini-Garibaldi-Vittorio Emanuele II, che hanno riempito di lapidi e monumenti le piazze e le vie d’Italia, non è più possibile. È l’epos che è venuto meno.
 
Nel recente film di Martone Noi credevamo la visione è quella di un Risorgimento senza eroi, cupo, dominato dal fanatismo ideologico di Mazzini pronto a mandare a morte innumerevoli giovani vite. Non è propriamente il quadro auspicato dagli organizzatori dei 150 anni. Si tratta di un revisionismo nuovo, diverso da quello degli anni ’70, nutrito allora dall’idea del Risorgimento “tradito”, dalla mitologia della Resistenza come nuovo Risorgimento. Quello odierno è un revisionismo che nasce dal disincanto, dalla consapevolezza che gli ideali che hanno creato l’Unità sono gli stessi che hanno procurato al Paese la repressione sanguinosa dei moti del Sud, due guerre mondiali, il fascismo. Ideali che trovano espressione nell’inno nazionale, nutrito di aspirazioni guerriere e di odio verso il nemico.
 



Se così è non si tratta però, oggi, di capovolgere la retorica nazionale e di celebrare, al posto di questa, la “disunione” d’Italia: il Nord contro Sud, le isole contro il continente, ecc. Non si tratta, cioè, di celebrare un’altra retorica, nordista o sudista che sia. È a questo livello che si situa la preoccupazione presente, pienamente legittima, della Chiesa. Come ha scritto sul Corriere della Sera Aldo Cazzullo: “Paradossalmente, a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa”. Nella scomparsa dei grandi partiti di massa, Dc e Pci, che erano anche grandi collettori popolari di appartenenza nazionale, la Chiesa è l’unica realtà universale e popolare ad un tempo.

Vuole, oggi, tenere unito un popolo perché lo considera un valore, una vittoria sugli egoismi e sulle barriere, e ciò indipendentemente dal giudizio, che può essere anche fortemente critico, sulle modalità storiche con cui si è realizzata l’unità italiana. Può farlo perché differentemente dai componenti della ex-Jugoslavia o dal Belgio attuale, diviso tra fiamminghi-protestanti e valloni-cattolici, il nostro Paese è formalmente unito sul piano religioso. Questo non prelude ad una prospettiva “giobertiana”, assolutamente fuori luogo e fuori tempo. Il temporalismo è finito e ciò, come ebbe a dire Paolo VI, è stato un risultato provvidenziale dell’Unità. Indica piuttosto che la Chiesa sostiene un vincolo di solidarietà, una tradizione di legami e di ideali,una storia comune.

Un’Italia spezzata diverrebbe una nullità politica in Europa e nel mondo. Un’Italia unita ha un ruolo di rilievo nella mediazione tra Est ed Ovest e tra Nord e Sud nel quadro mediterraneo. Una mediazione a cui anche la Chiesa tiene per poter promuovere il suo ruolo di pace e di equilibrio nel mondo.
 

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