La relazione di Costantino Esposito è appassionata e ricca di implicazioni filosofiche illuminanti a proposito di questioni di grande difficoltà e importanza. Essa ha, inoltre, la virtù rara della sincerità e dell’impegno alla veridicità. Avanzando le sue tesi, che muovono dal riconoscimento dell’incertezza come condizione saliente dell’epoca in cui ci accade di vivere le nostre vite finite, Esposito mette in gioco al meglio la sua funzione intellettuale e, alla fine, se stesso. E anche questa è una virtù rara della sua relazione.
Le questioni dell’incertezza, della contingenza e del “bisogno insopprimibile di certezza”, di cui ci parla Esposito, mi sono molto familiari. Ho dedicato buona parte delle mia ricerca filosofica a queste faccende difficili, a partire almeno dalle tre meditazioni di Dell’incertezza, sino al mio ultimo libro che consiste di quattro lezioni su L’idea di incompletezza. Per questo, leggendo Esposito, mi sono sentito a casa. E per questo mi interessa mettere in luce almeno due punti in cui la mia ricerca mi ha indotto a vedere le cose in modo differente e distinto, rispetto alla prospettiva favorita da Esposito.
Il primo punto coincide con l’applicazione stessa dell’idea di incertezza. Le considerazioni di Bauman, da cui muove il primo passo di Esposito, sono naturalmente molto note e indiscutibilmente popolari. Tuttavia, sono convinto che andrebbero prese con maggiore cautela e sobrietà intellettuale. La questione non è quella della incertezza come condizione distintiva dei nostri tempi. Messa così, la questione è esposta a una vasta e familiare gamma di critiche e confutazioni. Sono convinto che tutte le volte che ci mettiamo alla prova con l’incertezza, abbiamo l’onere di specificare: incertezza di che cosa, o a proposito di che cosa?
E se prendiamo sul serio l’onere di una risposta plausibile, ci rendiamo facilmente conto che il nostro riconoscere incertezza a proposito di qualcosa indica che il confine fra quanto accreditiamo come certo e quanto è esposto al vento d’incertezza è divenuto d’un tratto mobile e sfumato.
E’ questa alterazione della partizione fra certo e incerto, in una essenziale varietà di ambiti, che genera per noi il problema dell’incertezza. Nel mio gergo, è in circostanze come queste che l’incertezza chiede teoria. In una varietà di ambiti: nell’ambito di ciò che vi è, di come stanno le cose; nell’ambito di ciò che vale, di ciò che conta e fa la differenza nelle nostre vite; nell’ambito in cui siamo impegnati ad attribuzioni di identità o a riconoscere la nostra mutevole identità.



In questo senso, sono d’accordo con Esposito quando egli sostiene una qualche priorità della certezza e rende conto della nostra persistente ricerca di una certezza perduta. Ma la priorità della certezza perduta indica semplicemente che è venuta meno la partizione stabile fra certo e incerto. Per questo non c’è bisogno della modernità o postmodernità liquida alla Bauman. Ci bastano alcune pagine luminose delle Pensées del grande Blaise Pascal. 
Non solo: si consideri che la priorità della certezza è un ingrediente prezioso di qualsiasi replica indiretta all’obiezione scettica e relativistica. Descartes, evocato da Esposito, aveva tentato eroicamente la via della replica diretta allo scetticismo, mirando alla proposizione immunizzata rispetto al dubbio. Ma la tesi della priorità della certezza, nella mia versione che è coerente con la replica indiretta, ci dice semplicemente che qualcosa deve certamente essere sottratto al dubbio perché noi possiamo, se è il caso, dubitare di qualcosa e revocare il nostro assenso newmaniano. Il punto importante è che quel qualcosa sottratto al dubbio non è necessariamente la stessa cosa. Ma torniamo al ruolo che l’incertezza può avere nelle nostre vite finite. 
Esposito scrive in un passo eloquente e convincente: “…se guardiamo più attentamente, essa/l’incertezza/ è in grado di attestare anche qualcos’altro, vale a dire il nostro essere-esposti costitutivamente a ciò che accade, che ci raggiunge, ci tocca, e per ciò stesso ci spiazza, ci provoca, ci chiama in causa”. Credo di essere pienamente d’accordo con questa prospettiva. 
Essa, nella mia idea, ha a che fare fondamentalmente con la nostra incompletezza. Noi siamo un tipo di esseri costitutivamente insaturi. E se l’incertezza, nel senso che ho cercato di specificare, è responsabile del nostro persistente tentativo di ridurla, alla grande o terra terra, del nostro persistente far teorie, l’incompletezza è la caratteristica distintiva delle nostre risposte. Risposte che mirano a dire l’ultima parola, punto e basta. E che sono destinate, ironicamente o umilmente, a convertirsi nella penultima parola. Nella scienza come nella filosofia.



Se le cose stanno grosso modo così, viene naturale tratteggiare una modesta proposta di apologia del vecchio Lessing. Le considerazioni di Esposito e l’ironica valutazione di Diego Marconi a proposito della scelta fra la mano di Dio in cui risiedono le verità e la mano in cui risiede la ricerca della verità non sono prive di buon senso. Il che non è mai male. Tuttavia, trovo qualcosa di stridente nella critica di Esposito. Esposito chiude la sua relazione sostenendo che “…il segreto di questa verifica, il motore del tempo, se così posso esprimermi, è il nostro domandare. Ogni qualvolta un uomo si chiede il ‘perché’ di sé, degli eventi, delle cose accade una novità – piccola o grande che sia – nel flusso altrimenti meccanico o caotico degli eventi, e il tempo diventa storia: non solo un passare di accadimenti, ma l’accadere dell’io”. Nella prima lezione de L’idea di incompletezza ho insistito sull’importanza, per tipi come noi, del nostro “durevole domandare”, in un commento ad alcuni passi del superbo Libro della Sapienza. 
Ma il vecchio Lessing probabilmente ci ricorderebbe che il nostro durevole domandare, il chiedersi il perché di sé o delle cose o del mondo evaporerebbe e non avrebbe senso se noi avessimo il possesso delle verità su noi e sul mondo, quelle che stanno in una delle mani di Dio. E allora? Credo che il riconoscimento del duplice paradigma dell’incertezza e dell’incompletezza possa indurci a un autoritratto dai contorni sfumati, provvisori e approssimativi, in cui riconosciamo noi stessi come predatori di verità e di senso. Come i vecchi marinai della mitica barca di Otto Neurath, costretti a riparare la propria barca in navigazione, senza poter mai contare nel rifugio in cantieri ospitali.
Vi sono molte altre questioni che Costantino Esposito ci offre nella sua relazione. Posso sinceramente sperare che nella navigazione si possa continuare a pensarci su e a discuterne assieme. Con amore della verità e con lealtà alla veridicità. In tempi difficili.

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