“Tutto il cammino che ho percorso sin qui fu tacitamente accompagnato dal confronto col cristianesimo”. Così si esprime Martin Heidegger a circa dieci anni di distanza dalla pubblicazione del suo capolavoro “Essere e tempo” (1927), molto probabilmente l’opera più importante di tutta la filosofia del Novecento.
Figlio del sacrestano della chiesa di Messkirch, nel Baden-Württemberg, con un’esperienza di seminario gesuita e solidi studi teologici alle spalle, Heidegger non poteva certo evitare il confronto con le sue origini religiose. Ciò è vero soprattutto per un pensatore che intendeva oltrepassare il modo accademico di fare filosofia, che desiderava superare la separazione tra vita e sapere per mettere a tema l’esistenza stessa. Da giovane docente poco più che ventenne Heidegger scrive a un suo allievo: “io non sono un filosofo. Io lavoro in maniera concretamente fattuale movendo dal mio ‘io sono?’, dalla mia provenienza spirituale di fatto, dal mio milieu, dai miei contesti vitali, da ciò che da qui mi è accessibile come viva esperienza, in cui io vivo”. Che cosa allora spinge il giovane pensatore a definirsi “teologo cristiano”?
Sin dall’inizio del suo percorso intellettuale Heidegger, sotto la guida del suo maestro Edmund Husserl, è alla ricerca di una filosofia come “scienza originaria”, capace di andare oltre la supremazia dell’atteggiamento meramente teorico e oggettivante. Tra i primi corsi tenuti da Heidegger presso l’Università di Friburgo ce n’è uno di particolare interesse dal titolo “Introduzione alla filosofia della religione” (1920-21). Qui si mette a tema ciò che nella tradizione filosofica sarebbe stato censurato, vale a dire quell’“esperienza effettiva della vita” che viene individuata nel cristianesimo delle origini per come questo viene descritto nelle epistole di S. Paolo. Qual è la condizione esistenziale che caratterizza i primi cristiani? Essa è determinata totalmente dall’annuncio della parousia, del ritorno definitivo di Cristo. Tale evento decisivo per la storia dell’uomo e del cosmo è percepito come imminente. Ciò significa che il ritorno di Cristo non è considerato come qualcosa di oggettivo, di esterno agli uomini, un evento di cui si possa chiedere o calcolare con certezza quando avverrà. Esso è in realtà qualcosa già presente, già operante nell’atteggiamento di sobrietà e vigilanza dei fedeli.
Ciò cambia quindi il modo di fare esperienza del tempo: il ritorno di Cristo è certo un evento futuro, ma non è qualcosa che i cristiani meramente attendono, bensì, sulla base della ripetizione in prima persona dell’annuncio che viene dal passato, è già operante nel presente in quanto cambia radicalmente il modo in cui gli uomini convertiti dall’annuncio si rapportano a se stessi, agli altri e a tutta la creazione. Cristo è già presente nel modo del non-più/non-ancora.
Il problema è che i cristiani non rimangono fedeli a tale esperienza originaria. Nel corso friburghese del 1921 dedicato a S. Agostino e al neoplatonismo Heidegger si riallaccia a un antico luogo comune ripreso e sviluppato dalle varie tradizioni protestanti moderne, quello della decadenza del cristianesimo successiva all’incontro dell’esperienza di fede con la cultura filosofica di origine greca e pagana. Con l’introduzione delle categorie metafisiche e la conseguente nascita della teologia l’esperienza cristiana più autentica viene tradita. Solo per fare un esempio: identificando Dio con un bene, seppur sommo, la temporalità propria dell’esperienza cambia gradualmente ma radicalmente, trasformando Dio da “presenza essenziale” (parousia), che agisce sin d’ora nel presente cambiando effettivamente l’esistenza umana, in una “semplice presenza” disponibile in un futuro più o meno lontano.
Se e quanto Heidegger sia rimasto fedele a tale programma di “de-ellenizzazione” del cristianesimo è questione dibattuta. L’attuale magistero pontificio ha del resto fornito ottime ragioni a sostegno della “provvidenzialità” dell’incontro tra la Bibbia e il logos greco. L’opera di Heidegger rimane comunque un punto di riferimento imprescindibile per chi intenda ripensare il rapporto tra filosofia e teologia, andando al di là di steccati disciplinari e ideologici che, robusti per ragioni storiche nel nostro paese, oggi non hanno più ragione d’essere. Tale compito è importante per la filosofia, la quale trova nella fede cristiana, per come questa è stata vissuta e pensata nel corso dei secoli, delle risorse intellettuali per affrontare le questione che le sono proprie. Ma tale compito è ancor più urgente per chi vive l’esperienza di fede, perché nella filosofia contemporanea può trovare ulteriori ragioni per credere.