È mancato ieri mattina Andrea Zanzotto. Lo scorso 10 ottobre il poeta di Pieve di Soligo aveva compiuto 90 anni e in suo omaggio all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano si è tenuta lunedì 17 ottobre una lezione-incontro in occasione dell’uscita del numero monografico della rivista “Autografo” I novanta di Zanzotto e del libro Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di Giovanna Ioli (Interlinea). Erano presenti la moglie del poeta, Marisa Zanzotto, Giuseppe Langella e Roberto Cicala dell’Università Cattolica, Clelia Martignoni dell’Università di Pavia, Uberto Motta dell’Università di Friburgo. Pubblichiamo di seguito, in esclusiva, l’intervento che il prof. Motta ha tenuto in questa occasione.
Mi sono chiesto, rileggendo l’opera poetica di Zanzotto per preparare questo breve intervento, chi sia il festeggiato di oggi e di questi giorni? Quali tratti o aspetti della sua opera, e della sua figura, possano essere utilmente richiamati, per rendergli un omaggio, in maniera appena decorosa.
Le schede e le tessere raccolte consentono di formulare queste ipotesi. Direi un uomo di complicata semplicità, un poeta carico di dubbi, spunti autocritici, profetiche nostalgie. Che, in una lirica del Galateo in Bosco, scrive: “Non ne so nulla. Eppure mi riguarda”. Col riverbero, in tale endecasillabo, di una posizione umana esemplare. Un uomo, Zanzotto, che viene e va da un misterioso sottosuolo, un corteggiatore degli incontaminati silenzi. Che come un aruspice, nei suoi libri, ha rilevato e continuato a rilevare, infaticabilmente, con pazienza e furore, dentro una scrittura ora bruciante e incandescente ora sigillata in una fugace quiete, le ambiguità e i pericoli dell’attuale stato del mondo. Pur sempre sforzandosi di opporre una qualche forma di resistenza. In nome di una idea alta e nobile dell’uomo, oggi sottoposta, lui direbbe, a pressioni tremende.
È la sua forse maggiore paura, per quanto si ricava dalle raccolte estreme: che l’attuale stato del mondo stia modificando il nostro ordinamento biologico, il nostro modo di essere umani, producendo “una frattura di tutte le strutture psichiche a livello collettivo”. Perché – sono le sue parole – “vivere in mezzo alla bruttezza [ed è di questo che parlano tante sue recentissime poesie: le contagiose irradiazioni della bruttezza a cui siamo esposti] non può non intaccare un certo tipo di sensibilità”, e alimentare così “impensabili fenomeni regressivi al limite del disagio mentale”.
Stiamo regredendo: la sua diagnosi è questa. Frana, anzi – al plurale – frane è uno dei termini ricorrenti. Ed è allora, nei testi, un allitterare di t e di r che mima i protervi spettri delle Arpie in circolazione. Il nostro presente, si legge in Conglomerati, è un “tappeto marcio di futuro”, che dovrebbe di se medesimo vergognarsi. La bruttura in cui siamo immersi (bruttura di ogni genere e specie) genera malessere, mina l’equilibrio, ha effetti disumanizzanti. Leggo quattro versi. “Sulle ali di pipistrello dell’informazione / corre e scorre e fa spaventi / l’anima torva del simbolico / del denaro simbolico”. Dove la metrica e il ritmo (ottonario + senario, ottonario, novenario sdrucciolo, settenario sdrucciolo) costituiscono il correlativo mimetico della materia evocata.
Mi ha fatto sussultare uno svelto passaggio della sua conversazione con Marzio Breda, pubblicata da Garzanti. “Non sento nessuno dire: Sono contento…”. E questo deficit di felicità è per Zanzotto la vera misura della crisi. C’è un grande marasma, una disperazione confusa, dentro cui si situa e spicca, al centro delle sue desolate considerazioni, la degenerazione della scuola.
A ciò si associano, nel suo saettante confabulare e sillabare, “il venire meno di una moralità consacrata, di certe tradizioni cristiane”, “il declino [diffuso ma non senza eccezioni] del cattolicesimo applicato, che era come un codice genetico della vita di relazione”. L’ammissione o denuncia meriterebbe uno spazio di approfondimento tutto per sé, ma io salto a quello che a Zanzotto pare il risultato: così non siamo più capaci di vivere insieme, non c’è più “alcuno spirito di comunità”. “Tutto finisce per rientrare nell’idea del consumo”, con il cinismo rapace che sappiamo e vediamo. Altri sei versi. “Labirinti lerci / che brucian di commerci [evidenzio la rima lerci-commerci] / infiltrando di polveri sottili / di ceneri sottili / gl’infimi fili / del nihil (con la rima sottili-fili in quasi rima con nihil)”. Così la scienza e la tecnica, pur progreditissime, arrivano a una società eticamente impreparata a riceverle.
E la poesia? Che ci sta a fare la poesia su questo cupo orizzonte? La poesia (ci viene da lui stesso suggerito) nasce “da un impulso a lodare la realtà e a farne un positivo collaudo”. L’accostamento etimologico è, oltre che esatto, interessante: l’esperienza della realtà (il collaudo) è la forma più alta di lode che le si possa tributare pubblicamente. “Bisogna avere coscienza – dice ancora Zanzotto – che solo facendo riapparire la poesia come una libertà in grado di emergere a dispetto di ogni precisione, qualcosa di buono potrà forse nascere”. “Soltanto se c’è una speranza che qualche cosa duri e abbia a valicare le curve del futuro, si ha l’atto poetico”. Le parole speranza e lode, sulle labbra del più coerente e intelligente discepolo di Giacomo Leopardi, assumono un peso speciale.
Estraggo allora dal numero di “Autografo” allestito dai colleghi pavesi per i 90 anni di Zanzotto, e appena pubblicato da Interlinea, un paio di sollecitazioni, con cui concludere il mio breve discorso. Sarà un modo per dichiarare affetto e ammirazione, oltre che per il festeggiato, anche per una scuola e una tradizione di studi, quella pavese appunto, verso cui molti credo siano disposti a riconoscersi largamente debitori.
Mi ha colpito, innanzi tutto, una battuta della testimonianza introduttiva di Patrizia Valduga, là dove si dice: “sono fiera di avere bussato alla sua porta con il cuore in ginocchio”. Perché mi sembra che queste semplici parole colgano la disposizione del lettore di poesia. Bussare con il cuore in ginocchio. Viene alla mente ciò che in una lettera Cristina Campo scriveva all’amica Marìa Zambrano: “Aspetta il tuo libro là dove gli hai dato appuntamento. Non lo tradire. Un libro è come lo Sposo – non dice l’ora del suo arrivo. Ma tu non lasciare la porta e la lampada”.
Aggiunge Patrizia Valduga: come poetessa, sono nata non a Conegliano Veneto, ma a Zanzotto, capitale della poesia, dove ogni esperienza interiore ha il più infallibile, irripetibile e gioioso dei correlativi. Che il festeggiato di oggi possa essere, oltre che un maestro, oltre che una presenza amica, anche uno spazio generativo, una fonte indiscutibile di ispirazione, è un dato oggettivo. Anche se tracciare la storia della ricezione poetica, piuttosto che critica, di Zanzotto sarà difficilissimo. Ma la lezione di Zanzotto è qui sigillata in quei tre aggettivi: infallibile, irripetibile, gioioso. Maestro perché capace di radiografare in modo acutissimo la nostra sempre precaria e sempre attesa identità.
Colgo da un foglio di appunti che accompagna la quarta stesura della Beltà una annotazione in prosa, citata a p. 46 di “Autografo”, che mi permetto di segnalare per quel che vale, intorno alla tensione che anima il fare poesia di Zanzotto. Per non cadere nella chiacchiera vuota, dice Zanzotto, bisogna attendere sempre. E quindi si chiede: ma che significato ha l’ammirazione? È possibile?
L’ammirazione implica un’infanzia eterna. Ma da dove viene questo sapiente bamboleggiare iniziale? Si prenda il IX tempo di Profezie o memorie o giornali murali, da La Beltà, di cui leggo uno scorcio: “Bimbo, bimbo! … / su qualche dolce calesse mirabilmente guidato / dal babbo con la mami-mamina / su una lunga via volta al mirabile tu stesso mirabile /…/ dentro la mondiale tenerezza”.
Il nesso fra attesa e ammirazione, posto in evidenza, è forse il segreto cuore di questa poesia, forse la ragione remota di quella gioia, così spesso negata alla superficie dei testi, a cui accenna Patrizia Valduga. Ed è posizione che si può conservare solo a patto di rimanere, nel cuore, bambini: anche a 90 anni. Capaci di una infanzia eterna, di un misterioso ma sapiente bamboleggiare: come si legge nella Beltà, “Ego-nepios / auto definizione in infanzia” (cioè: possiedo l’io di un lattante, che non si riesce a percepire che dentro i parametri dell’età infantile).
L’ammirazione per Zanzotto è l’energia elementare, è un’esperienza di provocazione che ci apre, perché ci fa intravedere, nell’incolmabile bisogno, una promessa. O almeno il sogno di una promessa, che ci sospinge oltre la nostra attuale immediatezza. Lo stupore, l’ammirazione – di fronte alla realtà – sono ciò che afferrano l’io e lo mettono in moto. L’infante, tante volte evocato da Zanzotto, come paradigma, è colui che ha bisogno di tutto, è il parvulus, il povero di spirito.
L’esperienza poetica, per Zanzotto, dunque nasce sempre da un atto di amore verso la realtà, anche se è una realtà brutta, nasce (lo dice lui, altrimenti non avrei il coraggio di tanta nettezza) come propensione verso la bellezza e la bontà. “Ma nelle immondizie / troverò tracce del sublime / buone per tutte le rime”. È qualche cosa di impositivo, che si impone, che ronza dentro. Scaturisce, certo, anche dal dolore e dalla frustrazione: ma soprattutto dall’entusiasmo, dalla sovrabbondanza del sentire. “Da una meraviglia adorante per qualche cosa che, nella sua bellezza o sublimità, chiama insistentemente alla sua esaltazione”. “Il fine più ostinato della poesia, la sua ossessiva mira… è il toccare un territorio ‘paradisiaco’, aspirazione che del resto concerne ogni essere”. Ovvero, con le parole della poesia: “Nell’alto del rosa / là dove nessun appuntamento è mancante”.
E così in Conglomerati troviamo questi versi: “LA POESIA: confidenziale colpo di gomito alla morte / qui inibita dalle sue (per un attimo) gambe corte”. E poi: “Raccogli i nostri desideri le nostre / non-preghiere di pre-sera di pre-bruma / dona fortuna ai dossi alle piccole brughiere / al loro perdurare ed accennare fino alla luna” (con la conquista di un’incantevole melodia vocalica, che è la sostanza stessa del dettato).
Atto di amore, la poesia, che in sé riassume l’azzardo della vita stessa. Perché “nell’amore noi diamo ciò che ‘non’ abbiamo, cioè offriamo il nostro vuoto”. È un’altra citazione. “Solo nell’amore si sperimenta l’unicità, l’insostituibilità di un essere, ciò che lo fa assolutamente prezioso in sé e per sé”. Si tratta di un’esperienza irriducibile: l’amore come aspirazione al paradisiaco, lampo di compimento, di cui oggi si fa terribile scempio. Rinascere ogni giorno per resistere: “Rari sono i luoghi in cui resistere, / luoghi dove Muse si danno convegno / per mantenere l’eco di un’armonia / per ricordarci ancora che esiste il sublime / per risaltare gli antichi splendori ed accogliere nuove vie di Beltà”. “Neve + brine + galaverne / febbri multiple accecanti del gelo / delizie in cui s’insinua il sublime / fino a stravolgere gli occhi”.
La febbre ha larga parte nel mondo zanzottiano, come patimento della propria febbrile, e perciò sempre scossa natura. È un fatto di tensione, di ricettività, di voglia di sublime. Ed è così che a 90 anni si può essere ancora giovani, o meglio, bambini. Con la febbre di chi non ha ancora smesso di crescere.
Per avermi restituito la fragranza, l’autenticità di certe cose e certe parole – cose e parole che contano – io sono molto grato ad Andrea Zanzotto. E sono molto lieto di essere qui, insieme all’ineguagliabile moglie Marisa e a tutti voi, a festeggiare il suo compleanno.