Il dibattito che si è svolto sul Ilsussidiario.net, a seguito del mio intervento al Meeting di Rimini sulla questione della possibile certezza per l’uomo contemporaneo, è stato per me stesso una grande occasione. E non solo per una più serrata verifica critica della mia proposta (come sempre accade quando interlocutori del calibro degli intervenuti entrano nella partita), ma per rendermi conto di quali siano le posizioni in gioco nell’odierno dibattito filosofico e culturale, e soprattutto quale sia la vera posta in gioco di esso. E siccome ritengo che la cosa più importante per me – e la più utile per i lettori – non sia tanto reiterare una dialettica tra le diverse tesi, quanto cercar di capire di che esperienza stiamo parlando quando parliamo di certezza e di verità, di realtà e di interpretazioni, di ragione e di libertà ecc., vorrei rientrare anch’io nel dibattito per dire quello che esso finora mi ha fatto riscoprire con maggiore evidenza. Ed è proprio a partire da quello che ha colpito me, che mi piacerebbe riproporre alcune questioni ai miei compagni di scoperta. Ad essere sincero le questioni sarebbero tante, ma (per oggi!) mi limito ad una soltanto, che nomino come segue: verità senza certezza o certezza senza verità?
Una delle domande più provocanti emerse nel dibattito è se la certezza sia un’esperienza realmente necessaria e positiva per l’essere umano, visto che essa (come argomenta Maurizio Ferraris) potrebbe anche coincidere con una fiducia mal riposta o addirittura con una fede in qualcosa di negativo o di malvagio. Non soltanto si potrebbe nutrire una certezza come “fede cieca” in Hitler, ma ci si potrebbe anche fidare di una madre cattiva (secondo un tipico caso da psicoanalisi, ricordato anche da Pietro Barcellona). Sarebbe dunque ben più importante stare a ciò che è vero, preferire la verità oggettiva dei fatti, piuttosto che inseguire una certezza soggettiva che potrebbe sempre sbagliarsi.
Ora, è vero (appunto) che noi potremmo scoprire di aver mal riposto la nostra fiducia in qualcuno che non lo meritava, ed è anche vero (appunto) che ci possono essere casi patologici di madri che vogliono il male dei figli: la partita dell’esistenza è sempre apertissima e noi non possiamo escludere la possibilità del male o l’inganno della ragione. Ma a me sembra che proprio il fatto di giudicare negativamente questa evenienza stia a dire che siamo fatti per la verità (o per dirla in prosa: siamo curiosi, interessati e bisognosi di capire come stanno effettivamente le cose), e che precisamente questa condizione o apertura permanente della nostra intelligenza attesta al tempo stesso che noi siamo sempre alla ricerca di una certezza per esistere.
Fermiamoci ancora un momento sul caso della madre cattiva: è vero che essa è cattiva (ne abbiamo finanche le prove oggettive!), ma lo scoprirlo non ci lascia indifferenti, tanto che da questa terribile verità potrebbero derivare carenze e traumi indelebili per tutta la vita. Non posso allora attestarmi sulla verità senza in qualche modo mettere in gioco tutto il mio io, perché il vero non è una formula matematica, ma un accadimento che mi tocca, mi interpella, chiede di me. Anzi, alcuni matematici ci testimoniano che anche una dimostrazione algebrica può essere fonte di commozione, nella scoperta stupefacente, come una volta ha scritto il matematico Eugene P. Wigner, che il mondo risponde alle nostre ipotesi: «(…) Il fatto miracoloso che il linguaggio della matematica sia appropriato per la formulazione delle leggi della fisica è un regalo meraviglioso che noi non comprendiamo, né meritiamo» (The unreasonable effectiveness of mathematics in the natural sciences, 1959).
Naturalmente noi possiamo pensare – in astratto – una verità senza certezza, ma è come se pensassimo qualcosa a prescindere da colui che la pensa e che è chiamato a dare il suo assenso a ciò che riconosce come vero. Già nel dire “questo è vero!” si mette in moto la dinamica della certezza. Come ha rilevato con la consueta chiarezza Enrico Berti, anche la certezza (come l’essere o la verità) si dice in molti modi, e non può essere affrettatamente identificata con la coerenza logica o con la durezza non modificabile dei fatti della natura o degli accadimenti della storia. È certo che io sono nato nel 1954 (benché forse avrei voluto essere un “nativo digitale” del XXI secolo); e che stamattina pioveva non ci sono dubbi, essendo stato costretto a rimanere a casa (anche se avevo programmato di andare al mare). Certo, è così – con o senza di me! Ma se per esempio io mi accorgo che, essendo nato in questo mio tempo ho avuto modo di incontrare la persona che amo o di scoprire un mio talento grazie ai maestri che ho incontrato o al contesto in cui ho studiato (e potrei continuare molto a lungo, come ciascuno di noi), allora scoprirei che quel fatto anagrafico porta in sé un fiume di certezza sul fatto che l’esistenza mi è stata data perché io potessi accoglierla e rispondere alle sue occasioni.
E se prendessi sul serio il fatto meteorologico della pioggia di stamattina come un evento che mi è dato per accorgermi con gratitudine di quanto sia importante casa mia come un luogo di rapporti, di costruzione e di cura della mia umanità? Non si tratta di un “perché” che so già a priori, e con cui posso “giustificare” le situazioni che non vanno, ma della scoperta intelligente che c’è un invito silenzioso che mi viene dalle cose, che attende di essere udito. Direi che questo è l’atto più semplice e più originario della mia libertà, cioè quello di accorgermi e di accogliere l’altro da me. E l’altro da me non è solo ciò che è fuori di me o diverso da me, ma è anche il “me stesso” che mi è dato, che non ho fatto io, ma che mi trovo addosso, come una finitezza che domanda il senso di sé e di tutto, o come una passività che è la fonte del genio.
Per farla breve, la certezza non è il contrario della storia e della libertà (come sembra intendere Gianni Vattimo) ma è la scoperta di un significato inesauribile della realtà nelle pieghe del tempo, nell’esperienza di ciò che è contingente, nella mia decisione di non archiviare ciò che accade, di accoglierlo come un dato, di assentire ad esso. Assentire non vuol dire assolutamente essere sempre d’accordo o supinamente rassegnato a ciò che c’è o è accaduto (e che molte volte gioca contro le nostre aspettative), ma accettare la sua sfida, interrogare la sua presenza, metterci in gioco. La certezza, dicevo a Rimini, è una dinamica che implica sempre il fattore-tempo, non è un acquisto fatto una volta per tutte, ma è qualcosa che ha a che fare sempre (come ha richiamato Salvatore Veca) con la nostra stessa incompletezza. Quest’ultima non indica un semplice limite da superare (o in cui accomodarsi, tentando di gestirlo nella maniera più conveniente), ma coincide con l’impossibilità di arrestare la nostra domanda di significato, e con il suo rilancio continuo alla scoperta del reale. Se noi rinunciamo a priori all’ipotesi almeno di una certezza, prima o poi rinunciamo alla verità, oppure la “blocchiamo” come ciò che non c’entra con noi.
Tutto insomma si gioca a mio modo di vedere nel rapporto completamente aperto, cioè non pregiudiziale, tra la ragione e la realtà. Che questo sia il problema risulta ad esempio in una recente disputa tra il “pensiero debole” di Vattimo (non esistono fatti, ma solo interpretazioni) e il “nuovo realismo” di Ferraris (esistono dei fatti oggettivi non emendabili e indipendenti dalle nostre interpretazioni). Insomma: una ragione senza realtà, da un lato, e una realtà semplicemente indipendente dalla ragione, dall’altro (ne ho discusso con lo stesso Ferraris in un dialogo apparso sulla rivista “Tracce”, ottobre 2011). Delle due l’una: o i fatti che non si lasciano modificare, o le interpretazioni che pretendono di modificare tutto. Ma nel gioco delle due posizioni è proprio il nesso costitutivo tra razionalità e realtà a risultare ormai inceppato, di modo che l’interpretazione resta solo una “prospettiva” soggettivistica, mentre l’unico senso possibile dell’oggettività del reale è quello di essere esterno al soggetto. Nell’ermeneutica post-moderna è come se io non chiedessi più niente alla realtà, e la mia libertà fosse solo la bella violenza della volontà, o la (meno bella) violenza del potere; nel realismo oggettivistico (in cui si risente un po’ l’eco del vecchio e nuovo positivismo) è come se la realtà non chiedesse più niente a me, se non di essere riconosciuta come ciò che non sono io. Io, invece… beh, quello resta ancora solo il regno delle mie interpretazioni e delle mie costruzioni culturali.
Mi ha colpito quando Sergio Belardinelli, riprendendo un tema su cui avevo insistito a Rimini, ha osservato che la certezza non solo ci inquieta – a differenza di tutte le sicurezze che possiamo possedere e di tutte le tranquillanti giustificazioni con cui possiamo illuderci –, ma addirittura esaspera le contraddizioni della nostra esistenza: segno che la certezza fiorisce, sobriamente, nella finitezza di questo mondo, non nella fuga in avanti verso altri mondi (che poi non sono solo i nirvana religiosi ma anche gli stupefacenti ideologici o gli eccitanti culturali). È quella condizione ontologica di cui ha parlato Eugenio Mazzarella, e di cui noi facciamo esperienza come di un legame originario all’essere: prima di tutte le strategie che mettiamo in opera per costruire le nostre certezze, siamo noi che nasciamo da una certezza – vale a dire che non ci siamo dati l’essere ma proveniamo da una “ragione” che è infinitamente più delle nostre rationes, cioè dei nostri calcoli, e che questa provenienza è una chiamata cui non possiamo cessare di rispondere, perché così cesseremmo di “esistere”.
Non mi resta che rilanciare la questione dunque: e non semplicemente opponendo le mie ragioni alle ragioni degli altri, ma cercando di capire se le ragioni che ciascuno matura nella sua esperienza – a condizione, naturalmente, che sia leale e non pregiudiziale con essa – possano “stare”, non dico senza le certezze che si possono costruire nella vita, ma senza quella certezza iniziale che la realtà ci ridesta con la sua presenza, ridestando con ciò stesso quella “realtà” cui diamo volentieri il nome di “io”.
Come una volta ha scritto G.K. Chesterton (nel grande libro su San Tommaso d’Aquino): «Non va bene dire a un ateo che è un ateo; o attribuire a chi nega l’immortalità l’infamia di negarla; o pensare che si possa costringere un avversario ad ammettere di avere torto dimostrandogli che ha torto in base ai principi di qualcun altro, e non ai suoi. Dopo il grande esempio di san Tommaso, è valido – o forse avrebbe dovuto sempre esserlo – il principio che o non discutiamo affatto con un uomo, o dobbiamo discutere in base alle sue ragioni e non alle nostre». Appunto io vorrei capire nuovamente la mia “ipotesi” (o se volete, il percorso della mia certezza) proprio prendendo sul serio le ragioni di chi non la condivide. D’altronde, come il sagace Chesterton ebbe a dire in un’altra occasione (nell’Autobiografia), «io ho discusso tutta la vita senza mai litigare, perché la cosa brutta dei litigi è che interrompono le discussioni».