Personalmente detesto la logica del “mi piace” o “non mi piace”, in particolare in campo artistico. Così quando davanti ad un’opera mi vien istintivamente da esprimere un giudizio di gusto, poi mi costringo a rendere ragione a me e a gli altri di quel giudizio. È una cosa che ho imparato con gli anni e di cui sono grato in particolare a Giovanni Agosti, uno dei maggiori storici dell’arte oggi in circolazione.
Il “mi piace” per esempio, per quanto mi riguarda, scatta quasi sempre davanti ad un’opera di Claude Monet. Il grande maestro impressionista, che non ha nelle sue corde nessuna di quelle caratteristiche che in genere rendono appassionante un artista: non ha uno sguardo impegnato sulla storia, non ha legami specifici con i grandi del passato, non fa sua nessuna causa né estetica né morale. In apparenza potrebbe sembrare un grande e fortunato artista borghese, chiuso nel suo meraviglioso mondo, tra ninfee e giardini giapponesi.
Per ragionare sul “mi piace” ovviamente conviene farsi guidare da sguardi più profondi dei nostri. Nel caso di Monet ce ne sono due che è interessantissimo prendere in considerazione. Il primo è quello di Marcel Proust, il secondo è quello di Charles Péguy. Per quanto riguarda Proust il compito è agevolato dal fatto che è appena uscito un piccolo libro, appassionato e molto bello, di Giuliana Giulietti sul rapporto tra Proust e Monet (Donzelli editore). Per Proust la conoscenza di Monet rappresentò un’esperienza estetica importantissima che riemerge tante volte, esplicitamente, tra le pagine dei suoi libri. Al centro di questo interesse c’è l’esperienza del tempo: Proust vede nella pittura di Monet una pittura che rappresenta cose nel loro status di cose che cambiano in ogni istante e non sono mai uguali a se stesse. Ci sono pagine straordinarie evidentemente ispirate da Monet, come quella della descrizione delle ninfee sulla Vivonne, in Dalla parte di Swann, uno dei libri della grande Recherche. La pittura di Monet interessa Proust perché assimila questo aspetto di inesauribile mutazione delle cose, anche quelle artificiali create dall’uomo (vedi la serie della facciata della Cattedrale di Rouen, che tanto piaceva a Proust). Certamente è una chiave importante per capire la grandezza di Monet.
Ma in ultima analisi sembra di cogliere un’intercapedine di separazione tra i loro sguardi, come se alla parola magistrale di Proust non fosse data la grazia di un approdo che invece Monet consegue. La descrizione meravigliosa delle ninfee di Proust resta come una sequenza di sguardi, o meglio di istanti psichici originati da quegli sguardi. In Monet invece le infinite molecole di luce colte dalla sua retina alla fine approdano ad una sintesi. Il senso di frammentarietà introdotto dal tempo e dalla sua transitorietà si traduce in lui in una visione più profonda e unitaria delle cose stesse. In un di più di luce.
Per questo mi pare che per capire Monet sia più utile rileggersi la pagina che sempre alla sue Ninfee dedicò Charles Péguy (in Dialogues de l’histoire et de l’âme charnelle). Péguy, come sua abitudine, pone una questione in apparenza secondaria e laterale. Si chiede quale delle Ninfee di Monet sia la più bella. E non ha bisogno di guardarle per rispondere. Spiega infatti che è senz’altro la prima: «La prima ninfea sarà la migliore, perché essa è la sua nascita; è l’alba dell’opera; perché questo quadro comporta il massimo di ignoranza, il massimo di innocenza e di freschezza… la prima ninfea è il quadro migliore, perché sa di meno, perché non sa affatto… ve lo dico dunque: il primo sarà il migliore perché non sa, perché è proprio esso che è tutto pieno di meraviglia… È la meraviglia che conta, principio sicuro di scienza…». Mi sembra che questo sia l’occhio giusto con cui guardare Monet. Quel “mi piace” da cui siamo partiti ha trovato in Péguy una sua ragione…