Secondo Aldo Giannuli, recensito da Corrado Stajano sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre (Il pozzo nero della Repubblica), nella storia dell’Italia dopo la liberazione dal nazi-fascismo ci sarebbe un enorme buco, anzi un profondo “pozzo nero”. Non si tratterebbe solo di quanto tutti sanno, cioè la mancata giustizia, il permanere di lati oscuri, di ombre, scheletri occultati negli armadi su episodi cruciali del dopoguerra. Sarebbe qualcosa di più e di più preciso.



Pare che dal fascismo alle Brigate rosse abbia operato un servizio segreto manovrato da ex badogliani, in combutta con la Confindustria, la Cia, la mafia, la malavita, uno stuolo di giornalisti e faccendieri, burattinai e intriganti. Questa organizzazione spionistica illegale sarebbe stata nota ad Andreotti, Moro e Craxi, e avrebbe dato luogo a imprese clamorose. Dalla fuga dall’ospedale romano Celio dell’ufficiale nazista Kappler alla trattativa del Vaticano con i brigatisti carnefici di Moro, fino all’accordo con la camorra per la liberazione del dirigente napoletano della Dc Ciro Cirillo. I socialisti avrebbero tenuto bordone, scortando la battaglia, per strappare il Psi all’unità d’azione col Pci. Tale organizzazione si chiamava Anello o Noto servizio.



Però Stajano, mentre si occupa del lavoro di Aldo Giannuli, è molto attento a non ingollare il pasto che il volume edito da Marco Tropea imbandisce. Bisogna infatti riconoscere che Stajano semina di ripetute precisazioni il suo testo. Avverte il lettore che il lavoro di Giannuli (un habitué di archivi grazie alle commesse dei magistrati e delle commissioni parlamentari d’inchiesta), è un «romanzone», un giallo. Manca, dice, di documentazione adeguata, è bulimico, sovrabbondante, con troppa carne al fuoco. Tutto vero, ma allora perché perdere il proprio tempo, cioè occuparsene tanto distesamente? Stajano fa di più. Si serve di un lessico improprio, viste le puntualizzazioni e le prese di distanza, come quello di “dignità scientifica” per raccontare le vicende di una piovra fuorilegge quale sarebbe stata l’“Anello”.



Si possono prendere sul serio fanfaluche come questa e altre simili all’Anello? Ferruccio De Bortoli dovrebbe dire ai suoi redattori della terza pagina che siamo di fronte agli angiporti della dietrologia più crassa. Secondo Corrado Stajano (che, ripeto, in maniera contorta prende le distanze dal libro di cui si occupa) e il recensito Aldo Giannuli, la storia ufficiale dell’Italia repubblicana sarebbe da riscrivere. La ragione: quanto scaturisce dagli archivi riservati dei servizi, del Viminale ecc., cioè quanto oggi è schermato nell’ombra, quasi invisibile, sarebbe la polpa. E non quanto risulta finora accertato o peggio consolidato.

In altre parole, il protagonista del dopoguerra, dopo la liberazione del paese dal nazi-fascismo, sarebbe l’eversione atlantica, cioè le azioni clandestine di guerra, di colpi di mano, di minacce, destabilizzazioni ecc. operate dalle centrali dell’anticomunismo. I nostri servizi segreti sarebbero la sentina di tutte le nequizie, e il Ministero dell’Interno una sorta di longa manus del fascismo-che-torna. Al centro di questo crocevia ci sarebbe Giulio Andreotti. È purtroppo anche la tesi del libro di un storico che gli archivi li conosce e li sa maneggiare come Miguel Gotor nel volume su Moro edito da Einaudi.

Ma perché il Corriere offre, con riserve minime, a lavori di ordito complottistico una vera e propria legittimazione sul piano scientifico di qualcosa che non lo è proprio, cioè la storiografia di estrema sinistra, la vulgata della storia repubblicana secondo gli stilemi dei Centri sociali? Quando essa si occupa dell’Italia del dopoguerra lo fa in preda ad un’euforia da spudoratezza. Rispetto a quella alimentata dal Pci, occorre dire che quest’ultima si è sempre nutrita di un pregiudizio figlio della guerra fredda. Ha creduto che a muovere le fila della storia repubblicana fossero gli Stati Uniti, cioè gli interessi economici e finanziari, in combutta con i servizi segreti, uniti dall’obiettivo di svolgere una politica simile a quella del fascismo ma con altri mezzi. La posta in gioco era la conquista del dopoguerra e, in seno all’Europa, dello spazio del Mediterraneo – diventato un’area cruciale per il controllo delle fonti energetiche – e l’emergere come soggetto politico delle masse africane e di regimi nazional-populistici sostenuti o incoraggiati dal Cremlino.

Per gli studiosi dell’Istituto Gramsci, con la caduta del fascismo, nei paesi che non erano finiti sotto il controllo dell’Urss sarebbe stato l’imperialismo a riprendere fiato e a imporsi. Attraverso le forme e le istituzioni liberaldemocratiche, i democratici statunitensi di Truman, i laburisti inglesi di Attlee, le folle acclamanti il generale De Gaulle, usando “la dittatura della maggioranza” e cioè le regole dei regimi parlamentari, avrebbero consolidato lo sfruttamento dei popoli condannandoli ad un destino di  miseria, di guerre. Per contro l’Unione sovietica, e l’impero costruito col Patto di Varsavia, era assunta come un’alternativa concreta (di pace, di progresso, di  speranza) a questa situazione di capitalismo col piombo nell’ala.

Questo schema interpretativo dei comunisti era orgogliosamente intinto di leninismo. Ma quando il vincolo ideologico si attenuò e i tempi della rivoluzione socialista si fecero lunghi, a sostituirlo fu una nuova tattica. La chiamerei quella dell’uso radicale del Parlamento. Non potendo diventare maggioranza, i comunisti nei paesi dell’Europa non sovietizzata si rassegnarono ad una risorsa sostitutiva. Invece dell’obiettivo ultimo del socialismo si batterono per la conquista di riforme anche profonde, imitando i socialdemocratici. Con esse potenziarono l’assistenzialismo, rafforzando il ruolo dello Stato a spese del mercato. La loro tattica si combinò con un orgoglioso sentimento filosovietico, prolungatosi anche dopo la morte di Stalin a metà degli anni Cinquanta.

Gli eredi diretti (o distanti) del Pci a questo armamentario hanno aggiunto un elemento ritenuto centrale. Si tratta dell’idea che dietro le spalle della democrazia parlamentare abbiano operato corpi segreti, covi e bande in grado di condizionare la vita politica e sociale dopo la guerra di liberazione mettendo a punto trame, depistaggi, provocazioni.

Il più noto di essi si chiamerebbe Anello o “Noto servizio”. Creato nel periodo declinante del fascismo da un generale fascista come Mario Roatta, avrebbe spinto i suoi tentacoli fino al 1980. In un testo più equilibrato di quello enfatizzato dal Corriere della Sera, scritto per Chiarelettere da Stefania Limiti (con introduzione di Giuseppe De Lutiis), viene addirittura chiamato L’Anello della Repubblica – anche se, va detto, non c’è modo di valorizzare meglio gli scarti delle verdure che si impiegano nella ribollita di come fanno i seguaci della cd “eversione atlantica” (appunto A. Giannuli, P. Cucchiarelli, G. Cipriani,  G. De Lutiis, ecc.). Al pari di Stajano, anche De Lutiis ammette che su gran parte dell’attività di questo covo non ci sarebbero prove né documenti. Dunque sarebbe opportuno, e bene, tacere su di esso.

Per parte mia voglio limitarmi a valutare un aspetto che dimostra la totale insensatezza di chi lo valorizza. Mi riferisco al ruolo che Giulio Andreotti avrebbe avuto in questa storia di trame. Giannuli, con minore senso storiografico, ripete cose già dette – in un rapporto per la verità assai circolare – da Miguel Gotor. Cose egualmente prive di senso storico. Che ragione aveva il leader democristiano di ordire la carnascialata del golpe Borghese, o di mettersi a traccheggiare con il terrorismo, comprese l’andirivieni, il taglia e cuci, lo scorporo di brani delle lettere e del testamento di Moro? Uno che è stato più volte presidente del Consiglio, decine di volte ministro (compresa la Difesa, gli Esteri), che ha creato intorno a sé una rete micidiale di palazzi romani e di poteri articolati e diffusi, che bisogno ha di fare congrega con Mino Pecorelli, un combattente della Repubblica sociale, vecchi arnesi come il cerchio interno dell’Anello? È vero che nella storia le decisioni possono esser anche frutto di irrazionalità e di pazzia. Ma davvero si pensa che, avendo ottenuto tutto, Andreotti, abituato a calcolare se sia il caso di dare un bacio sulla guancia o strusciarla soltanto per salutare, abbia scelto di imbarcarsi in compagnia di ventura di infimo ordine?

Stajano si dovrebbe chiedere come si concilia questa immagine di avventuriero spregiudicato (e bischero, me lo si lasci dire) costruita dai suoi amici teorici dell’eversione atlantica con quella su cui la maggioranza assoluta di essi tacciono. Mi riferisco al fatto che Andreotti è stato uno dei pochi a tenere sotto schiaffo (ritirandogli la nomina di comandante di un importante reparto militare a Milano) il temutissimo capo dei servizi Vito Miceli, a negare l’apposizione del segreto di Stato su vicende importanti, a rendere di pubblico dominio l’attività e i componenti della Gladio. Con scarsa felicità dell’amministrazione di Washington.

Mi chiedo come si posa continuare a ripetere le vecchie storielle sul golpismo del generale Giovanni De Lorenzo e a dipingere i rapporti di complicità, se non di collaborazione, tra eversori di ogni risma e Luigi Cavallo.

Fino a quando a quest’ultimo si intende far pagare come un crimine l’onore di avere praticato un tenace anticomunismo nel momento in cui l’Italia e l’Europa rischiarono di finire sotto il martellante controllo, diretto o indiretto, di Mosca? Davvero si vuole continuare a fare di ogni erba un fascio confondendo la sua azione con quella di Edgardo Sogno, e a non rendersi conto che Pace e Libertà solo per qualche anno venne diretta da Cavallo? E come si fa la sordina sul ruolo che ebbe nel sovversivismo post-bellico fino alle Brigate rosse un ex partigiano comunista come Roberto Dotti? Ma un approccio di questo tipo comporta un’analisi  di tipo storiografico, che non riguarda i giornalisti e va fatta in altra sede.

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