Crisi dell’umano e desiderio di felicità. Che cos’ha da dire la Chiesa oggi?. La sfida alla quale cerca di rispondere l’annuale convegno della Fondazione Russia Cristiana ha avuto uno spunto particolare nel tremendo attentato del gennaio scorso all’aeroporto moscovita di Domodedovo, quando il terrore e l’angoscia sembrarono togliere alla gente ogni speranza di una vita umanamente vivibile; questa sfida è però quella quotidiana, non solo di fronte alle tragedie e alle crisi (che al massimo la rendono più acuta), ma di fronte al fatto stesso della vita che, con tutti i suoi limiti, cerca un significato corrispondente al suo desiderio infinito. L’umano cerca l’infinito e l’eternità, qualsiasi cosa non gli corrisponda desta una domanda e un grido.
L’esperienza del XX secolo, in particolare l’esperienza della Russia e della sua Chiesa, con i patimenti e il martirio che hanno dovuto subire, costituisce senz’altro una risposta a questa domanda: in quell’inferno l’uomo non solo è potuto rimanere uomo, ma ha potuto trasmettere il senso di una libertà, di una bellezza e di una dignità che sembrano impossibili anche agli uomini esteriormente liberi. Le storie dei martiri e dei grandi letterati russi, che dall’abisso dei campi di concentramento ci hanno trasmesso la testimonianza di una vita più forte della morte, sono in questo senso un patrimonio per gli uomini di ogni tempo e luogo.
Ma l’uomo d’oggi sembra non cogliere più l’attualità di questa risposta, è come se dovesse prima rispondere a un’altra sfida, quella di superare lo spazio che separa la sua intelligenza dal suo cuore, lo spazio che separa il riconoscimento di una storia dalla comprensione del fatto che quella storia non riguarda soltanto i libri o le leggi della storia, ma riguarda la sua persona; non racconta la storia di esseri mitici perduti nel passato o volati in un cielo distante dalle cose della vita, ma la storia di ciascuno di noi oggi. La Chiesa stessa e i cristiani devono vincere questa sfida per primi, facendo tesoro di quello che Papa Benedetto XVI diceva recentemente, durante il suo viaggio in Germania, quando ammoniva a non lavorare «per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi».
Il vero problema, la vera sfida è a recuperare il senso dell’umanità di ciascuno di noi, a riappropriarsi del proprio io: se non ci riusciamo non possiamo sperare e non possiamo immaginare una speranza adeguata alla misura dell’uomo. L’uomo può sperare perché è chiamato all’infinito; se non recupera questa coscienza e resta chiuso nei suoi orizzonti limitati non ha alcuna possibilità di vincere, continuerà a cercare soddisfazioni parziali in piccole cose finite che continuamente lo deluderanno ogni volta che arriveranno alla conclusione del loro ciclo vitale.
E questo gli accadrà sempre, inesorabilmente, anche se si impadronirà perfettamente di tutte le leggi dell’economia e della natura: in fondo le tragedie del XX secolo sono nate appunto da questa pretesa di dominare il finito; e sono nate da questa pretesa non solo o soprattutto perché alla fine la natura (le leggi dell’economia o le leggi della razza) non si è lasciata dominare, ma per un errore e una dimenticanza di origine: l’uomo è libero, e voler costruire una società dimenticando questo elemento essenziale e fondandosi solo sulla necessità delle leggi significa distruggere l’uomo prima ancora di iniziare ad organizzarne la vita e la società.
Ma la speranza dell’uomo di vincere la morte, il finito e la sua necessità non dipende soltanto dal suo desiderio, dalle concessioni che riuscirà a strappare ai potenti o dal dominio che riuscirà ad imporre alle leggi della storia e della natura: la speranza dell’uomo è ragionevole perché si radica in una realtà, la realtà dell’essere con la sua gratuità di cosa non fatta da mano d’uomo. E’ la scoperta delle cose nella loro qualità fondamentale di essere date, nella qualità che costituisce la stoffa di tutto l’essere, una qualità che l’uomo può riconoscere se solo non si lascia sviare dalle pretese di un’autonomia sterile e ingiustificata e che poi rende possibile una speranza anche nei momenti più tragici.
Ed è proprio in questo essere che è tutto dono, che può rinascere la speranza autentica che nulla può scuotere nella sua ragionevolezza, la speranza dei martiri che rinunciano a tutto non perché attendono qualcosa che non sanno se mai verrà, ma perché hanno già trovato «una “base” migliore per la loro esistenza – una base che rimane e che nessuno può togliere».