MOSCA – A distanza di vent’anni dal collasso dell’Unione Sovietica, la parola “memoria”, nella Russia odierna, non è certo tra le più amate. Non lo è soprattutto nelle sedi ufficiali, se così le vogliamo chiamare, negli ambiti pubblici, statali e governativi, nei quali ogni sforzo è teso a costruire la nuova immagine della Russia, moderna ed avanzata, tutta protesa verso il suo futuro di potenza politica, economica e sovranazionale. Alla Russia di ieri, certo, ci si riferisce spesso, ma solo in formule stereotipate che della «storia patria» selezionano – e non senza equivoci e addirittura estremismi – quegli avvenimenti che contribuiscono a costruire l’immagine del «nostro glorioso passato». L’altro passato – quello del Gulag, per intenderci – è archiviato, non negato, ma messo da parte; è un’eredità troppo scomoda, alla quale ci si può rivolgere solo con diplomatica cautela,  semmai silenzioso raccoglimento, come un ricordo che non si può cancellare ma si preferisce non richiamare, sperando che il tempo possa levigarlo e infine seppellire in un angolo remoto.



È per questo che il 30 ottobre, in Russia, è una data che colpisce più delle altre. In essa si celebra il Giorno della memoria delle vittime delle repressione politiche. È un giorno della memoria, appunto, che in tre semplici parole – «vittime delle repressioni politiche» – racchiude moltissimo: a emergere è un passato neanche troppo lontano, nel quale la follia ideologica di uno Stato partitico, quello comunista sovietico, arrivò a falciare in una mastodontica macchina repressiva i suoi stessi figli, pianificando l’arresto e l’omicidio di migliaia di persone come regolare prassi del funzionamento stesso dello Stato. È una data ufficiale, è vero, ma come purtroppo sanno bene gli “addetti ai lavori” non è accompagnata da quel movimento collettivo della coscienza pubblica che l’evento meriterebbe. Nulla a che fare, giusto per fare il paragone più immediato, con il 27 gennaio che in Occidente ricorda l’Olocausto e le vittime del nazionalsocialismo, con una sempre maggiore partecipazione dell’opinione pubblica. 



E tuttavia c’è chi non si arrende. Per il quinto anno consecutivo, domani, 29 ottobre, vigilia della giornata, l’Associazione Memorial organizza a Mosca un evento del tutto particolare, che non può non commuovere per la lucidità di coscienza e la profonda concezione di uomo con le quali affronta a viso aperto questo “problema” della memoria. Si chiama il «ritorno dei nomi». Il ritrovo è in piazza Lubjanka – quella dove sorge il famigerato edificio del Kgb, simbolo per antonomasia della repressione politica – davanti al «masso delle Solovki» (il primo lager sovietico, anno 1921) per una non-stop di 12 ore in cui si leggeranno ad uno ad uno i nomi dei fucilati a Mosca nel 1937-1938, il nefasto biennio meglio noto come “Grande Terrore”.



A turno, salendo su un piccolo podio allestito per l’occasione, parenti degli uccisi (i pochi ancora in vita), membri dell’Associazione, anziani e ragazzi delle scuole, professori e gente comune, si succederanno con una candela in mano e delle vittime pronunceranno solo il nome, il cognome, l’età, la professione e la data di fucilazione. Una lunga litania, un moderno martirologio. Un gesto “nudo”, elementare, senza enfasi, che vuole soffermarsi sull’essenziale.

La memoria, infatti, non si può che costruire sulle persone. E tale deve essere anche la memoria delle vittime del totalitarismo sovietico. La moderna storiografia, quella che si basa sui documenti d’archivio che hanno cominciato ad essere accessibili dalla fine degli anni Ottanta, ha contato finora, nel solo biennio del Grande Terrore, circa 1.700.000 persone arrestate in Urss con imputazioni politiche. Se poi si contano le vittime delle deportazioni e gli «elementi socialmente dannosi» condannati, il numero dei repressi supera i due milioni. Di questi più di 700.000 furono giustiziati, la maggior parte tramite fucilazione. Nella sola Mosca sono circa 30.000. Sono cifre da capogiro, spaventose, che stringono il cuore, ammazzano il respiro. E in un certo senso sono anche provvisorie, perché riguardano solo due anni emblematici sui quali maggiormente si è concentrato l’interesse degli studiosi, ma che sono una parte soltanto degli eccidi di quasi trent’anni di leadership staliniana (basti pensare all’Holodomor in Ucraina degli inizi degli anni Trenta), e a cui bisogna aggiungere il non meno buio periodo iniziale della Rivoluzione di Lenin (a cui vanno ascritte, oltre alle vittime “ordinarie” della Rivoluzione, quasi tre anni di guerra civile e una terribile carestia) e le successive repressioni che hanno contraddistinto ogni epoca fino almeno alla fine degli anni Settanta.

Eppure, pur importantissime, sarebbero solo cifre. I numeri colpiscono, possono fare paura, con essi si possono stilare grafici e statistiche, ma con molta facilità si possono anche dimenticare, e con eccezionale rapidità si possono cambiare o, come si dice spesso, “re-interpretare”. Le persone no. Un nome e un cognome, una professione, una data, sono un fatto incancellabile. Per questo vale la pena di stare lì, una giornata intera, a leggere dei nomi, a farli “tornare”. Il “ritorno dei nomi” significa il “ritorno all’uomo”. Quello di cui la storia, tutta, ha oggi soprattutto bisogno.

Come aveva detto, quasi mezzo secolo fa, quando “democrazia” era una parola impossibile, Vasilij Grossman, in una pagina memorabile di Vita e destino: «Partiamo dall’uomo, mostriamogli bontà e attenzioni chiunque egli sia, arciprete, contadino, industriale milionario, forzato di Sachalin, cameriere in un ristorante. Iniziamo rispettando, compatendo, amando l’uomo, altrimenti non ne verrà nulla. È questa, la democrazia, la democrazia mai nata del popolo russo».