Steve Jobs non era cristiano. E con questo? – si dirà. Con questo niente. Niente di più e niente di meno. Semplicemente, non era cristiano e, perciò, nemmeno santo, strutturalmente impossibilitato a esserlo. Ammirevole, se si vuole, per più motivi, ma non santo né “giusto” dell’umanità. San Massimiliano Kolbe, Oskar Schindler, Sergio Perlasca, Giovanni Palatucci, Salvo d’Acquisto, loro sì, hanno dato la vita non per un’idea, ma per altre vite umane. Sia chiaro che non è mia intenzione demolire né denigrare la figura e il lascito del celeberrimo industriale californiano: a Cesare quel che è suo, ma Cesare non è Dio, e Jobs non è stato un uomo di Dio né un benefattore di esseri umani sofferenti. Tutto qui. Per sua stessa esplicita testimonianza. Lungo l’intera esistenza, questo eccezionale impresario dell’immagine mentale non ha fatto che testimoniare – in pensieri (nei concepts che han dato forma agli oggetti creati), in parole (nei supercliccati speeches), in opere (nei fantastici tools prodotti) – che ciò che conta è la potenza creativa della propria mente e la capacità di ricominciare sempre daccapo a partire da sé, da un sé/self molto, molto self-centered e che tanto assomiglia all’ideale dell’americano self made man.



Steve Jobs è stato un imprenditore di razza che, cavalcando la nuova onda delle tecnologie informatiche e singolarmente prevedendone gli sviluppi, ha inventato e “marchettato” sull’orbe terraqueo prodotti commerciali (costosissimi) che hanno di molto semplificato, ridimensionato e incrementato quelle macchine un tempo grosse e grigie che si chiamavano “calcolatori” o “elaboratori elettronici”. La sua ineguagliabile avventura umana e professionale, in cui scorgo la quintessenza del “sogno americano”, ha da insegnare a chiunque ha avviato un’impresa o all’intrapresa si senta chiamato. Questo è stato e questo si deve riconoscere al marvellous genius di Cupertino – chissà, forse anche perché, involontariamente, poté beneficiare o risentire della benedizione di quel saint Joseph of Cupertino, italianissimo eponimo della sua città, mistico estatico e patrono di quanti viaggiano per l’aria e… nell’etere. Del resto – conviene ricordarlo –, la California non è la neonata “nuova frontiera” della trasgressione o la patria del gay pride: è pur sempre la terra de los Angeles, di san Diego, di san Antonio, di san Francisco.



Ma la si smetta di pappagallescamente cianciare dell’uomo che “ci ha cambiato la vita”, che “ha fatto sognare il mondo intero”, che “ha mutato il modo di pensare di tutti”, “che ha fatto della connessione un bisogno indispensabile”; di più: “dell’uomo che ha insegnato una nuova concezione della vita”. Ancora, si viene ripetendo da ogni dove che il mondo “gli deve tanto”: ma come? Dopo tutto l’oceano di denaro finito (e finituro) nei forzieri della Apple Inc., versato da milioni e milioni di acquirenti, ancora gli siamo debitori?

Ma di quale “mondo” si parla? Con ogni evidenza, il mondo industriale dei media occidentali (cioè planetarii), coi suoi corifèi leftist delle tribune a stampa e a video, gli sarà debitore in eterno: ha trovato in Jobs il nume che ha felicemente coniugato il (plus)valore del capitale con la creatività senza limiti, la fame di notizia (e di soldo) con la follia rivoluzionaria. Non so come, ma da qualche tempo mi sto domandando se l’inventore dei calzini o del bidè non abbia reso all’umanità un servigio più utile dell’introduzione dell’iphone. Sarà il tempo, i prossimi decennii, a dire se le invenzioni del mitico Steve dureranno e saranno state davvero un bene.



Sul “Foglio” di giovedì, 6 ottobre 2011, all’indomani della morte a 56 anni di Jobs, è stato riproposto l’articolo pubblicato un paio di mesi fa circa da Claudio Cerasa, un giornalista-blogger che è suo fan sincero ma non acritico. Il pezzo, davvero notevole, svela e argomenta l’intenzione e la prassi religiosa perseguite dal “profeta” della rivoluzione tecnologica friendly, per l’appunto “osannato” dalla community degli “adepti” della Mela addentata.

È specialmente interessante l’idea di implicit religion connessa al marchio Apple e alle sue strategie, che coincidono indissolubilmente con quelle del suo inventore e mentore. Non va infatti dimenticato che l’indiscusso genio “visionario” (così l’ha consacrato Obama) della Silicon Valley ha rivestito – lui, non solo i suoi acclamatori – i panni del “filosofo mitico” annunciatore di una “nuova era”, che si è proposto – lui buddhista iniziato in India e unito in matrimonio da un monaco zen – come “mistico” e mistagogo di un popolo nuovo di consumatori raffinati, come l’iniziatore della via tecnologica light all’età dello Spirito. E anche il celebre motto, fra i tanti pronunciati da Jobs, “Stay hungry. Stay foolish” (“siate sempre affamati, siate sempre folli”) è in effetti un mantra tratto da “The Whole Earth Catalogue”, una rivista americana degli anni ’68-’72 e oltre di controcultura di sinistra, che predisponeva, predicava, prediceva l’imminente avvento di un’età eco-tecnologica, cui l’uomo ormai divinizzato doveva attrezzarsi. Fu un periodico che Jobs ebbe in séguito a paragonare a un “Google in formato tascabile”, dotato del medesimo potenziale informativo, e in cui all’epoca si leggevano proposizioni come le seguenti:

Noi siamo come dèi, e ci conviene farlo bene. Fino ad ora, un potere e una gloria di provenienza remota – attraverso ciò che è stato reso possibile dal governo, dal grande business, dall’educazione formale, dalla chiesa – ha avuto successo, ma solo fino al punto in cui grosse perdite oscurano gli attuali profitti. In risposta a questo dilemma e a questi profitti, si sta sviluppando un regno di intimo, personale potere – il potere dell’individuo di guidare la sua educazione, di trovare la sua personale ispirazione, di dare forma al suo ambiente, e di condividere la sua avventura con chiunque sia interessato. È il Whole Earth Catalog a ricercare e promuovere gli strumenti che aiutano questo processo. Gli uomini sono diventati come dèi. Non è forse il momento di capire finalmente la divinità che è in noi? La scienza ci offre la totale padronanza sul nostro ambiente e sul nostro destino, finora invece di gioire noi proviamo una paura profonda. Perché dovremmo? Come possono, queste paure, essere cancellate?

Steve Jobs, dunque, come “la personificazione mitica di una nuova grande Conoscenza”. Steve Jobs come l’uomo che ha però anche saputo interrogarsi a fondo (ancorché su uno sfondo meramente intraterreno) circa il problema dei problemi, la fine della vita, fin dal memorabile e stracitato Stanford Commencement Speech del 14 giugno 2005, pronunciato nell’omonima università californiana, lui che non si laureò mai se non, oltre trent’anni dopo la breve esperienza da studente al Reed College di Porland, honoris causa. “Ricordare che morirò presto è la cosa più importante che ho trovato nell’aiutarmi a prendere le grandi scelte della vita. Perché quasi tutto – tutte le aspettative esteriori, ogni orgoglio, ogni paura della vergogna o del fallimento – queste cose spariscono quando si è davanti alla morte, lasciando solo quello che è realmente importante. Avere in mente che state per morire è il modo migliore che io conosca per evitare la trappola di pensare che avete qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è nessuna ragione per non seguire il vostro cuore”.

Fa impressione, non c’è che dire, la forza e la generosità di un uomo aggredito dal cancro pronto a rimettere tutto in discussione, a guardare avanti come da un nuovo inizio nella piena consapevolezza, già sei anni or sono, della morte incombente. E tuttavia, uno si chiede: che vuol dire che “non avete niente da perdere”, che “siete già nudi”? E’ una verità, certo, però parziale, finanche temeraria ove sia posta e assunta per definitiva proprio da chi non ha cessato di predicare la libertà da qualunque dogma.

Lo sappiamo che gli umani hanno bisogno di miti e di simboli per tirare avanti, specie quando credono o dichiarano di poterne fare a meno. Sicché scivolano in quella confusione tipicamente pagana e neopagana di fare le apoteosi – per altro perfettamente correlate e speculari ai sacrifici dei capri espiatorii. Anziché glorificarlo, trovo più equo e benevolo invocare pace all’anima del formidabile Steve, che Dio lo benedica!