Pellegrini della verità, pellegrini della pace. Questo è il titolo della terza giornata in cui i rappresentanti di tutte le religioni del mondo si sono trovati ad Assisi, sulle orme di Giovanni Paolo II e su iniziativa di Benedetto XVI. E’ stato già chiarito da Massimo Camisasca il senso di questa parola così spoglia di retorica, ma anche impegnativa per il corpo e per l’interiorità dell’uomo.



Il fascino delle analogie ci porta dalla terra umbra al grande silenzio della Russia, ad incontrare la storia di un uomo che dice di sé: “Per grazia di Dio io sono uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto, della specie più misera, sempre in giro da paese a paese. Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco, nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta. Entrato in chiesa per pregare, si leggeva l’Epistola ai Tessalonicesi, in quel passo dove è detto: ‘Pregate senza posa’. Quella parola penetrò profondamente nel mio spirito, e mi chiesi come sarebbe stato possibile dal momento che ognuno di noi deve occuparsi di tanti lavori per sostenere la propria vita.



Parla l’anonimo autore dei Racconti del pellegrino russo, apparsi per la prima volta verso il 1865 e da allora sempre ripubblicati. Egli era nato agli inizi del 1800, aveva avuto vita difficile per la morte precoce dei genitori e per la violenza di un fratello. Morta la moglie, si sente attratto dall’orazione incessante di cui parla la Scrittura. Alla ricerca di qualcuno che gli insegni come pregare sempre, diviene pellegrino e vive  avventure e traversie di ogni tipo. Il suo scritto si presenta come un trattato spirituale e un poema dal tono quasi fiabesco. Esso si può ricollegare alle produzioni più serene del movimento letterario russo del 1800, con i suoi personaggi tipici, nobili, contadini, funzionari, corrieri, che si muovono nella vastità della pianura russa. 



La bellezza della vita del pellegrino sta nella preghiera del cuore, alla quale egli perviene dopo aver lungamente cercato e nella quale persevera sotto la guida di uno starec. Essa consiste nell’invocazione continua del nome di Gesù con le labbra, con il cuore e con l’intelligenza, nella certezza della sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo. Si esprime con le parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!”. Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande consolazione, prova il bisogno di dirla sempre e dopo un po’ di tempo essa scorre in lui come da sola. 

Lo starec mostra al pellegrino una copia della Filocalia, raccolta di testi patristici sulla preghiera e la paragona al pezzo di vetro necessario all’occhio umano per guardare il sole splendente della Scrittura. Il pellegrino si stabilisce poco distante dall’eremo, per imparare a vivere la preghiera interiore. Passa dallo zelo alla noia, alla pigrizia, alla tristezza e sempre trova la comprensione del suo maestro spirituale. Gli viene detto di ripetere prima tremila, poi seimila, poi dodicimila volte al giorno la preghiera di Gesù ed egli ubbidisce fedelmente e con sempre maggiore facilità. È il dono che ricevono coloro che cercano il Signore nella semplicità del cuore. Ormai può recitare la preghiera senza più contare, stando umilmente nella volontà di Dio e sperando nel suo aiuto.

Una storia evidentemente molto personale, che con difficoltà può essere imitata nel nostro modo di vivere dissipato. Vivere la vita da pellegrini di verità e di pace come indica il Pontefice è più praticabile. Don Giussani amava ripetere che non vi fosse molta differenza tra vivere la memoria nei chiostri di un monastero piuttosto che nella metropolitana di una grande città. E così sarà possibile sentire come proprio il canto di Musorgskij: “Piangi, piangi, popolo infelice, piangi, popolo affamato, Dio avrà pietà di te