Dopo – credo – quindici anni, un poeta ha vinto il premio Nobel per la letteratura; uno di casa, uno svedese, pronosticato da tempo e  oggi insignito di questo prestigioso quanto discusso riconoscimento. Tomas Tranströmer, nato nell’aprile del 1931, psicologo, pianista e, soprattutto, poeta da sempre, anche dopo la paralisi conseguente ad una grave malattia, è molto noto in patria, dove lo considerano il più grande poeta contemporaneo. In Italia, a quel che mi risulta, sono pubblicate (oltre a qualche testo presente nell’Antologia della poesia svedese contemporaneaedita da Crocetti)due sue raccolte: Sorgegondolen. La lugubre gondola, pubblicato nel 2003 da Herrenhaus e Poesia dal silenzio, pubblicato da Crocetti nel 2008, la cui ristampa sarà disponibile a giorni. Abbiamo cominciato a conoscerlo dopo il 2004, quando ricevette il Premio Nonino per la poesia, in buona parte per merito di Claudio Magris, che in quell’occasione segnalava il pregio di un’arte poetica “basata essenzialmente sull’immagine”, virtù e tentazione d’ogni poeta. 



Virtù quando “l’impianto figurativo del pensiero” (Marys Rizzo Spasaro) persegue la realtà, così ingombrante e testarda (e “i fatti sono quanto di più ostinato ci sia al mondo” – M. Bulgakov) e così esigente di educazione per essere conosciuta e riconosciuta, visti i nostri pregiudizi e i frequenti mal di testa che ci perseguitano e considerata l’ incrinatura che attraversa le cose dai tempi in cui, con Adamo ed Eva, abbiamo anche noi salito il pendio della “daltonica notte” di cui dice il poeta svedese: “E dietro di me oltre le plumbee acque luccicanti c’era l’altra costa e i dominatori. Uomini con futuro invece di volti”.



Nel suo splendido, e difficile, Conversazione su Dante, O. Mandel’stam dichiara che la poesia “si installa in un campo d’azione nuovo… impegnandosi non tanto a raccontare, quanto piuttosto a recitare la natura, attraverso i mezzi strumentari denominati volgarmente immagine”. Il che fa del poeta assai più che un confezionatore di immagini, esposto più che mai alla tentazione di consumare la cosa, scordando l’ammonimento dell’americano poeta William Carlos Williams: “Nessuna idea se non nelle cose”, che pare un’ ottima introduzione a Transtromer se quest’ultimo dichiara: “Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua… scopro orme di capriolo sulla neve. Lingua senza parole”.



Del poco che conosciamo della sua opera – se poco si può dire la poesia quando fende il misero vortice di suoni urlati, scritti, origliati, intercettati che rimbalzano e “fa ragion ch’io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in somigliante piato: ché voler ciò udire è bassa voglia (Inferno XXX) – da questo parco tesoro, dicevamo, tentiamo di estrarre qualche pepita, qualche cristallo di solida poesia, venato di lotta, secondo la suggestione del già citato Mandel’stam:

Le pietre –  “che abbiamo gettato” e cadono nella valle dove “volano le azioni confuse dall’attimo” o, ancora più oltre, là dove “cadono le nostre azioni cristalline su nessun fondo, tranne noi stessi”.

Il gabbiano – che “volteggia ebbro lontano sulle acque”, nel seguitare di sera e mattina, quando giunge l’alba che “batte e ribatte sui cancelli granitici del mare e il sole crepita vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive brancolano nei vapori marini”.

Il cavallo – la “scultura esposta nel vuoto” in mezzo alla sala di un palazzo, gigantesco, “nero come un ferro”, “un’immagine del potere stesso rimasta dopo che i principi se ne erano andati”, che parla e dice: ”Io sono l’Unico. Ho disarcionato il vuoto che mi cavalcava. Questa è la mia stalla. Cresco lentamente. E mangio il silenzio che regna qui dentro”.

I perfetti camaleonti – “i ricordi” di cui è colmo il verde in cui ci si inoltra la mattina presto e che “ci seguono con lo sguardo”, così vicini “che li sento respirare benché il canto degli uccelli dia stupore”.

La vecchia quercia – “nel suo immenso stare, come alce pietrificata con grandi corna davanti alla chiusura nero verde del mare settembrino”. E in alto, molto più in alto dell’albero, “nel silenzio del buio si sente lo scalpitare delle stelle”.

Il treno – entrato in stazione, e fermo “vagone dopo vagone, ma nessuna porta si apre, nessuno scende o sale. Ci sono veramente delle porte?”. E dentro il treno “un brulichio di uomini rinchiusi che vanno su e giù”, mentre fuori “un uomo con un martello… urta le ruote che debolmente risuonano”. Ma qui, qui dove la poesia ci conduce, “qui il rumore aumenta incomprensibilmente: un fulmine, il rintocco dell’orologio della cattedrale, il rumore della circumnavigazione del globo che solleva tutto il treno e le pietre umide dei dintorni. Tutto canta. Ve lo ricorderete. Andate avanti”.

E infine, più splendenti che mai, L’albero e il cielo:

 

Un albero va camminando nella pioggia,
ci supera correndo veloce nel freddo grigiore.
Ha una cosa da fare. Si nutre di pioggia
come un merlo che sosta in un giardino di frutta.

Quando la pioggia perde respiro l’albero si ferma.
Esso si intravede verticale, saldo nelle notti chiare
mentre attende come noi che in un batter d’occhio
fiocchi di neve sboccino nell’aria.