La memoria di una guerra è sempre ambivalente. Le ragioni dei vincitori non possono che essere l’opposto di quelle dei vinti. Così è avvenuto anche per la vittoria riportata a Lepanto, sulle coste occidentali della Grecia, il 7 ottobre 1571, dalla  flotta delle potenze cristiane contro i turchi guidati da Mehmet Alì pascià. Da parte cristiana, nell’impresa sostenuta dalla Lega Santa si vide subito un segno miracoloso di benevolenza dal cielo, benedetto da Dio e dalla Vergine del Santo Rosario. Era il grande successo di una energica manovra di autodifesa, che dopo tanto tempo sfatava il mito dell’imbattibilità delle armate ottomane e incrinava la loro fortuna sul fronte del dominio dei mari, nel vasto teatro del Mediterraneo orientale.



Prima di allora, le sconfitte e gli arretramenti forzati, di cui avevano fatto le spese soprattutto Venezia, i bizantini e i regni della penisola balcanica, avevano disegnato un catena fallimentare, apparentemente senza sbocchi: la minaccia dell’espansione islamica incombeva e poteva sembrare quasi utopica la possibilità di ogni vera inversione di tendenza. Nel 1453 era caduta Costantinopoli. Poi c’erano state le incursioni turche in Friuli e la presa di Otranto nel 1480, con lo strascico luttuoso dei suoi ottocento martiri. La disfatta di Mohács, nel 1526, aveva provocato la caduta dell’Ungheria. Quindi ci furono il primo assedio di Vienna, gli assalti a Malta strenuamente difesa dai Cavalieri dell’ordine di San Giovanni, la perdita delle isole di Chio e di Cipro. 



Lepanto fu la prima smentita clamorosa rispetto all’idea che ormai i giochi erano fatti una volta per sempre ai margini della cristianità europea. Dovunque si organizzarono feste solenni di ringraziamento. Una gran quantità di dipinti, di poemetti e di racconti celebrativi, diffusi attraverso mille canali, cominciò a esaltare una giornata memorabile, tessendo l’elogio dei suoi eroi stretti intorno al capitano generale don Giovanni d’Austria. Canti e preghiere diedero sfogo al senso di sollievo per un pericolo se non altro alleggerito. 

Il santuario-principe della cattolicità fedele a Roma, Loreto, divenne l’epicentro della riconoscenza collettiva dispiegata da chi, ricorrendo alla logica pur brutale della forza, aveva riportato un risultato che sembrava comunque garantire un bene prezioso per la parte uscita meno malconcia dallo scontro. Reduce dalla battaglia, a Loreto si recò in pellegrinaggio l’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna, seguito dai rematori cristiani delle navi turche, liberati dalle catene della loro schiavitù. Lo stesso fece il comandante in capo della spedizione cristiana. Con il ferro delle catene, una volta fuse, si fabbricarono le cancellate interne della basilica, che custodiva la casa di Maria trasportata in volo dagli angeli dalla Terrasanta, secondo la tradizione, per salvarla dagli infedeli. 



È una storia importante quella che si annoda intorno al significato della giornata di Lepanto. L’hanno riproposta Giovanni Ricci e altri autori nei saggi di un bel volume recente: L’Islam visto da Occidente (Marietti). Lepanto divenne l’emblema di un possibile riscatto politico-militare degli stati cristiani europei, davanti all’avanzata dell’Impero che i turchi avevano edificato dopo essersi sovrapposti alla prima dominazione araba, averne adottato la religione e sconfitto il grande avversario di Bisanzio, erede dell’antica Roma. Questo spiega come mai ancora oggi Lepanto sia una delle insegne sotto le quali amano raccogliersi i gruppi anti-islamici più oltranzisti, fioriti nel nostro mondo contemporaneo, in Italia e in altre parti d’Europa, per tenere viva l’esigenza della contrapposizione radicale con una “alterità”, insieme politica, religiosa e culturale, avvertita solo nei termini di un’insidia dalla quale difendersi con le armi del rifiuto e dell’innalzamento delle barriere. 

Ma il guaio è che i miti e le regole del passato non possono valere, negli stessi esatti termini, per il mondo di oggi. Questo è un uso strumentale della storia, viziato dall’anacronismo: pensare che i problemi si ripropongono sempre senza variazioni, e che dunque “gli altri”, lontani e diversi da noi, sono solo complici di un complotto mortale, al quale dobbiamo reagire con la muscolosa superiorità sancita da un duro conflitto, corpo a corpo.

Lepanto, al contrario, può anche insegnare che la logica dello scontro all’ultimo sangue e della “guerra di civiltà” non risolve al fondo e definitivamente i problemi. Ci vuole ben altro per convivere con il diverso da noi. Anche dopo Lepanto, gli uomini dell’Europa cristiana hanno dovuto mantenere contatti diplomatici e culturali con l’odiato nemico: per conoscersi, per gestire le grandi vertenze internazionali, per evitare di sbranarsi continuamente a vicenda. Ci furono ancora le guerre, la violenza, il rifiuto reciproco. Ci furono il nuovo assedio di Vienna del 1683, gli stendardi della Mezzaluna innalzati come bottino trionfale nei santuari mariani, la liberazione di Buda, Passarowitz (1718) e tutto quello che ne è venuto dopo. 

Sul fronte opposto, le moschee si sostituivano ai monasteri ortodossi e alle chiese cristiane, o le immagini dei santi erano appese a testa in giù alla Marina di Algeri. Ma c’erano anche gli scambi economici che restavano aperti tra i due mondi. Sopravvivevano dei margini residui di libertà per le minoranze religiose almeno nelle periferie più avanzate dei domini musulmani in terra balcanica. Persino il riscatto degli schiavi cristiani, recuperati con le collette di denaro a cura di confraternite e ordini religiosi presenti in tutti i più importanti centri urbani dell’Occidente, era la forma estrema di un rapporto stabilito tra realtà che avevano migliaia di buoni motivi per respingersi a vicenda.

A maggior ragione, nel mondo globalizzato dei movimenti migratori di massa, della secolarizzazione avanzante e del “meticciato”, che avvicina e costringe a dialogare le molteplici identità presenti sullo scenario di una società aperta, si dovranno sempre di più incentivare mezzi diversi dall’uso della forza e dal ricorso alla paura per difendere i valori sostanziali della propria fede e disegnare i contorni di una convivenza al plurale, tra soggetti che non sono e non possono essere omogenei.