Con la pubblicazione, per ora solo in tedesco, del carteggio tra Joseph Roth e Stefan Zweig si torna a parlare della Mitteleuropa. Gran parte dell’opera di Roth è la descrizione della fine dell’impero e anche il carteggio rivela le capacità intuitive dello scrittore sugli avvenimenti successivi.
Nato nel 1894 da famiglia ebrea vicino a Brody, nella parte orientale della Polonia, allora periferia dell’impero, Roth conobbe presto il dolore per la pazzia del padre, considerata nel suo ambiente un castigo di Dio e per la vita ritirata della madre, tesa all’educazione protettiva del figlio. Frequenta il liceo di Brody, si iscrive alle università di Leopoli e Vienna e studia letteratura tedesca. Scoppia la prima guerra mondiale e Roth si arruola volontario. Muore l’imperatore Francesco Giuseppe e ciò diventa per lo scrittore metafora del tramonto dell’impero e della perdita della patria. Trasferitosi da Vienna a Berlino, scrive sul prestigioso giornale Frankfurter Zeitung articoli culturali e famosi reportage da vari paesi d’Europa.
Aveva sposato nel 1922 a Vienna una donna bella e intelligente, ma ancora una volta la follia visita la sua famiglia: la moglie dà segni di squilibrio e dopo vari tentativi di cura, nel 1940 morrà vittima del programma di eutanasia dei nazisti. Roth comincia a bere, conosce donne con cui ha relazioni di diversa durata, anche a causa della sua esagerata gelosia. Nel 1933, il giorno in cui Hitler diviene cancelliere del Reich, Roth lascia la Germania. Manifestando una singolare capacità di prevedere ciò che sarebbe accaduto, scrive a Zweig “Tutto porta a una nuova guerra. Si è riusciti a far governare la barbarie. Non si illuda. L’Inferno comanda”. Trascorre l’esilio in diversi luoghi, prevalentemente in Francia, dove negli ultimi tempi della sua vita, a causa delle condizioni economiche e dell’ubriachezza, trova dimora all’ospizio dei poveri e dove muore nel 1939; viene sepolto, sebbene non ci sia certezza circa una sua avvenuta conversione, con il rito cattolico, mentre legittimisti austriaci, comunisti ed ebrei ne rivendicavano l’eredità spirituale.
Nella sua variegata produzione di scrittore spiccano due temi fondamentali: il primo riguarda la vita degli ebrei orientali e dà vita al capolavoro Giobbe. Il secondo ha come fulcro la finis Austriae, non tanto l’elegia di un mondo perduto, quello di tanti popoli riuniti sotto la corona dell’impero, quanto l’arazzo tessuto in colori grigi con qualche bagliore di porpora di un modo di vivere nella calma dell’ordine, modello di una convivenza pacifica mai più ripetuta e per ciò stesso preziosa per la memoria e per l’ideazione del futuro. Questo mondo in parte ignaro della sua prossima fine crede che la sua lunghissima sopravvivenza sia un bene per il mondo. I romanzi che meglio raccontano questa coscienza, che non ha l’angoscia, ma quasi il culto della morte, sono La cripta dei Cappuccini e La marcia di Radetzky; nel primo, che prende nome dal luogo in cui si trova il sepolcro di Francesco Giuseppe, il protagonista racconta la propria vita giovanile: “Frequentavo l’allegra, anzi sfrenata compagnia di giovani aristocratici. Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui ancora non intuivamo l’approssimarsi”.
Nel secondo romanzo, pubblicato nel 1932, Roth narra il declino dell’impero asburgico attraverso la storia della famiglia Trotta, in cui tre uomini si succedono al servizio dell’impero: l’eroe di Solferino, il sottotenente che salvò la vita dell’imperatore ottenendo un titolo nobiliare, suo figlio Franz, fedele capitano distrettuale, il nipote Carl Joseph, sottotenente di fanteria che combatterà la prima guerra mondiale, ma che rivela in una vita annoiata e dedita all’alcol, al gioco, all’amore per una matura signora la cupa consapevolezza del disfarsi di quel mondo e della propria esistenza. La pioggia, il tramonto del sole, il canto delle allodole, il suono delle campane imprimono un fondo di malinconia al romanzo, che si svolge in gran parte in ambiente militare, con le sue ferree leggi e la sua fierezza e in cui le donne, amanti, prostitute o cameriere, fungono da comparse. Un romanzo struggente, ma non triste. Le note della marcia di Radetzky scandiscono l’epopea di uomini non intrappolati, ma resi liberi dalla disciplina.