Ritorna costantemente il richiamo al mancato rispetto dell’autorità. A scuola, in famiglia, negli ambienti pubblici la denuncia è ricorrente: chi è investito dal ruolo e dalle funzioni di esercizio dell’autorità si sente in difficoltà crescente nell’esercitarla. Perché la nostra società non è autorevole? Perché non si sa far ascoltare e perché tutto è volto in derisione? Perché le autorità non sono più credute?
Il problema è sociologicamente centrale. Affermare la fine di una legge assoluta, proveniente tanto dal linguaggio religioso quanto da quello secolare, e con essa sancire il declino di quanti la rappresentano costituisce una delle risposte più ricorrenti. Il tramonto di una tale legge è spiegato da Alain Touraine (“E’ venuta meno l’idea di una legge assoluta”, Repubblica, 7 novembre) con lo sviluppo permanente della scienza e della tecnologia. La modernità tecnico-scientifica, della quale l’uomo e la società non ne costituirebbero che l’appendice socio-biologica, porta ad un mondo in trasformazione permanente. Mutano la scienza, la tecnologia, l’informazione, quindi è l’intera morale e le regole che la strutturano che, mutando a loro volta, si relativizzano, implicando inevitabilmente la perdita di prestigio per tutti coloro che erano chiamati a farle rispettare.
Ad una tale débacle sopravvivono per Touraine due principi primi (che quindi, non mutano): uno di tipo epistemologico, proveniente dai Lumi, e l’altro di tipo antropologico proveniente dalla tradizione cristiana. E’ quest’ultimo che gli consente – e ciò meriterebbe più di qualche riflessione per tanti osservatori – di rintracciare nella dignità dell’uomo il fondamento della legge, di ogni legge. Ed è a partire da questo principio che Touraine compie delle riflessioni più che condivisibili, più che apprezzabili. Non c’è autorità che possa essere realmente autorevole quando non è capace di attivare quel riconoscimento dell’altro che consente alla regola, a qualsiasi regola, di cogliere la differenza del soggetto. Qualsiasi autorità non può prescindere da un tale processo di individualizzazione se ci tiene ad essere riconosciuta.
Si può andare più in là arrivando a dire, con Pierpaolo Donati, come non c’è azione educativa che, dovendo tenere conto dell’altro, non diventi una relazione, cioè un rapporto tra persone – nel caso del rapporto educativo, tra l’allievo e il maestro – dove ognuno dice di sé e della propria esperienza, realizzando così l’incontro tra due umanità, ciascuna delle quali cerca di essere riconosciuta dall’altra: che è poi la forma più alta e nobile di quello che comunemente chiamiamo dialogo. Un’azione educativa che non ha presente la dimensione dell’altro, è destinata a rischiare l’inefficacia. Ma soprattutto essa diventa un incontro mancato, un riconoscimento non avvenuto.
Un tale rischio è tanto più rilevante quanto più l’organizzazione burocratico-formale definisce ruoli e funzioni, più che persone e desideri. Ogni organizzazione sociale, come intuiva Luhmann, deve poter ignorare le differenze per permettersi di essere efficiente: la differenziazione, la personalizzazione, logorano l’apparato istituzionale in quanto tale, diminuendone l’efficienza. Un rapporto da persona a persona è faticoso: richiede tempo, disponibilità, volontà, empatia, ha bisogno di essere sostenuto, anche sul piano istituzionale.
Quali sono i criteri che consentono un percorso di riconoscimento? Non è un caso che Alain Touraine faccia l’esempio dell’immigrato che deve relazionarsi in una lingua che non è la sua: tra tutte le individuazioni è quella più evidente. Ma veramente bastano solo le categorie sociografiche, che poi spesso non sono che l’aggiornamento sotto vesti colte dei più noti stereotipi, per individualizzare e riconoscere l’altro? Non è forse giunto il momento di cominciare a rendersi conto di come, se dietro ad ogni rapporto educativo – qualunque siano le fatiche e le distanze, le strutture e i limiti – c’è in gioco una relazione umana tra due persone e che è questa, e solo questa, che fonda l’autorevolezza della dimensione dell’educare, allora occorre dire che un tale percorso di riconoscimento è essenzialmente quello del desiderio che l’altro si porta dentro? Un desiderio che, nel caso del rapporto educativo, risiede tanto in chi ascolta quanto in chi insegna?
Se, come dice Touraine citando Hannah Arendt, il soggetto umano ha il diritto ad avere diritti, questi sanciscono prima di tutto una preoccupazione per l’uomo in quanto tale, ad un tempo docente e discente. Si tratta allora di recuperare un principio antropologico che il nostro universo strutturato e strutturante sembra aver dimenticato.
Scrive Péguy: “L’umanità oltrepasserà i primi dirigibili come ha fatto per le prime locomotive … dopo la telefotografia inventerà costantemente delle grafie, delle scopie e delle fonie, che non saranno meno ‘tele’ le une delle altre e si potrà fare il giro della terra in meno di niente. Ma non sarà mai altro che la terra temporale, ma non sarà mai altro che la terra carnale”.
Rilette ad un secolo di distanza queste righe danno i brividi e spingono a riflettere. Recuperare il soggetto, nella sua unicità, sembra costituire il punto cruciale della società contemporanea.