Il secondo romanzo di Alessandro D’Avenia, Cose che nessuno sa, ha l’indubbio pregio della scorrevolezza. Si fa leggere con facilità e con attenzione, cosa non facile e non scontata. Racconta un piccolo squarcio di vita milanese, con alcuni rimandi alla Sicilia e alla Liguria, alla paziente libertà del mare che manca così tanto a Milano. Non moltissimi i personaggi: Margherita, la protagonista, i suoi genitori in crisi, suo fratello, sua nonna, le sue amiche, il suo professore di lettere, il suo primo amore, Giulio. Tutti gli ingredienti del momento in cui una bambina comincia a diventare donna e scopre lentamente se stessa e il mondo nel dolore e nell’amore.
Il romanzo inizia con una assenza, quella del padre di Margherita, fuggito da casa senza spiegazioni, prosegue con la decisione che spinge Margherita a cercarlo e a riportarlo in famiglia, ripetendo lo stesso tentativo di Telemaco a ritrovare Ulisse e a farlo ritornare a Itaca. Nel dolore di quella assenza, Omero e il professore di lettere innamorato dei libri, Giulio e la sua cupa tenerezza diventano le occasioni di una timida, ma tenace presa di coscienza.
Se ai mortali fosse possibile scegliere tutto da sé,/ sceglierebbero il dì del ritorno del padre. I versi di Omero chiosano a meraviglia gli avvenimenti della ricerca di Margherita, e non solo; fanno comprendere che la nostalgia dell’origine, l’attesa del compimento, l’amore del padre sono nella struttura della vita umana e nello stesso tempo sono in altre mani che quelle umane, e tuttavia oggetto del desiderio che muove ogni azione.
Il romanzo racconta la giovinezza, il teatro, la famiglia, la cucina, il disegno, i libri, i poeti, l’abbandono, il ricordo, la morte attraverso la lente della letteratura e della poesia: qui sta a parere di chi scrive il suo tallone d’Achille. La vita parla da sé, e se è vero che gli scrittori aiutano ad illuminarne molti aspetti, la mediazione letteraria ha i suoi pericoli, come avverte Stella, la fidanzata del professore nella sua precoce, troppo precoce maturità.
In un romanzo parlano le cose e occorre lasciare che il loro linguaggio inespresso adeschi la sensibilità del lettore e la muova nella via dell’identificazione o della distanza; se la pur lodevole abitudine a spiegare tutto, che è propria degli insegnanti come riflesso del loro lavoro, è troppo marcata, il rischio della didascalia è in agguato e presto o tardi ci si cade. E in questo romanzo, spiace doverlo notare, ciò accade troppo spesso. Non si riesce a capire se volutamente, anche per un comprensibile amore di letterato, oppure se per una insicurezza di esperienza umana, che cerca la quinta dell’autore, dell’autorità, per celarsi.
Sta di fatto che una storia che intreccia molte delle problematiche giovanili e non, che nella scuola emergono con frequenza, un racconto che ha il pregio di non essere scontato nelle sue pieghe anche interiori, un piccolo affresco che raffigura le varie età della vita, dall’infanzia alla vecchiaia, meriterebbe un maggiore coraggio nel non sovrapporre ai fatti e ai personaggi il peso di troppi rimandi colti espliciti ed impliciti (la montaliana dolcezza inquieta di pag. 76 è un svista? non certo l’allusione a Il pranzo di Babette di pag. 151).
Allora i caratteri apparirebbero più naturali, meno costruiti; la profondità con cui l’autore li fa riflettere guadagnerebbe in sincerità; la descrizione della natura e della città nascerebbe da un moto dell’animo. Egli sembra possedere tutte queste qualità. Forse deve solo crederci e, lasciando la zavorra che lo appesantisce, vivere. Proprio come dicevano gli antichi: primum vivere, deinde philosophari. Allora forse si troverà nel mare aperto della realtà e lascerà che essa accada.