La nostra è la società del politicamente corretto. Che sterilizza la realtà, ufficialmente evitandone gli aspetti “nocivi”. Il caffè viene decaffeinato, la panna è venduta senza grassi, si può trovare la birra analcolica. È una stagione così, dove la guerra è senza guerra (pensate alla dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime), la politica è senza politica (lasciata com’è ai tecnocrati dell’amministrazione), persino il Cristianesimo, direbbe Peguy, è senza Cristo. Un pensiero lucido e paradossale quello del filosofo sloveno Slavoj Žižek, che ha offerto questa attualissima riflessione dalle colonne de La Stampa (pagina 37 del 14 novembre). Žižek ha il merito di cogliere il momento giusto della riflessione, in lui davvero la filosofia pensa la realtà, valuta la storia. 



Ha arringato i ragazzi che manifestano davanti a Wall Street, ha conquistato la critica di New Republic (che lo ha definito “Il più pericoloso filosofo d’Occidente”), ha scritto un libro-dialogo su Gesù Cristo con John Milbank, il teologo anglicano presente all’ultimo Meeting. Il filosofo sloveno Slavoj Žižek, 62 anni, originario di Lubiana e professore in diversi atenei americani, è uno dei pensatori più originali e controversi dell’ultimo periodo. Filosofo funambolico, multi-mediale, imprevedibile, prende spunti dai film di Hollywood come dalla letteratura. Cita Mozart e sant’Ireneo, i flash-mob e Oscar Wilde. Hegel e Marx (che dimostra di conoscere bene) e il grande Chesterton.



Il Corriere della Sera raccontando il suo incontro con i giovani di Occupy Wall Street lo ha definito (forse sbrigativamente) “marxista, lacaniano, teorico del cinema e ‘tecnicamente un comunista’ (autodefinizione)”. In effetti Žižek è uno dei pochissimi che predica da qualche tempo la fine del capitalismo occidentale, ma lo fa partendo da analisi molto condivisibili e molto poco ideologiche. Il suo saggio “Vivere alla fine dei tempi” (sottotitolo: Il capitalismo sta per finire: e adesso?) edito in Italia da Ponte alle Grazie è pieno di stimoli e riflessioni e quantomeno dovrebbe essere accostato con curiosità verso qualcuno che ha anticipato le tragedie della storia e della cronaca. Per certi versi, ricorda il saggio di Augusto Del Noce su Il suicidio della rivoluzione, nel senso che Žižek si dice convinto dell’imminente implosione del sistema politico-economico occidentale, così come Del Noce aveva profetizzato la fine del sistema socialista sovietico, prima del suo crollo fisico e storico. Entrambi sembrano portare fino in fondo le conseguenze del ragionamento intrinseco nelle premesse filosofiche di questi due sistemi. Prendendoli sul serio ed entrandoci dentro. Lo sloveno dice in pratica: non c’è più alcun dubbio, il sistema (turbo) capitalistico sta arrivando ai suoi ultimi giorni, si sta suicidando. Tutta la questione è come la società occidentale vuole vivere la sua “fine”.



Ciò che mi ha colpito, in particolare, in questo saggio è tutto il ragionamento su ciò che ai tempi de Il Sabatoavevamo chiamato “Gli anni di Pelagio”. Quella tendenza a ridurre il pensiero contemporaneo al campo etico-giuridico…

Sentite questa citazione (pagina 179 di “Vivere alla fine dei tempi”): “Il pensiero (post) politico contemporaneo è prigioniero dello spazio determinato da due poli: etica e giurisprudenza. Da un lato, la politica – sia nella sua versione liberal tollerante che in quella “fondamentalista” – è concepita come la realizzazione di posizioni etiche (su diritti umani, aborto, libertà …) che le preesistono; dall’altro e in modo complementare essa è formulata nella lingua della giurisprudenza (come trovare l’equilibrio appropriato tra i diritti degli individui e quelli delle comunità ecc.). È qui che il riferimento alla religione può trovare un ruolo positivo nel resuscitare la dimensione propria del politico, nel ri-politicizzare la politica: può dare la possibilità agli attori politici di uscire dall’attuale groviglio etico-legale. Il vecchio sintagma, il “teologico-politico” acquista qui nuova rilevanza; il punto non è solo che ogni politica è fondata in una visione “teologica” della realtà, ma anche che ogni teologia è intrinsecamente politica, è l’ideologia di un nuovo spazio collettivo (come le comunità di credenti nel cristianesimo delle origini, o l’umma nell’Islam delle origini). Parafrasando Kierkegaard, potremmo dire che ciò di cui oggi abbiamo bisogno è una sospensione teologico-politica dell’etico-legale”. Molto interessante. 

Un altro spunto inaspettato che ci viene da questo filosofo, star negli Usa, è il libro scritto a quattro mani col teologo cristiano Milbank, professore a Nottingham e ospite dell’ultimo Meeting di Rimini. Sapete su che cosa è questo volume, edito in Italia dalle edizioni Transeuropa? Sulla figura di Gesù. Titolo: “La mostruosità di Cristo”. E’ il dialogo tra due pensatori che si definiscono “radicali”, uno laico radicale “hegeliano” e l’altro anglicano, con al centro la figura dell’uomo di Nazareth. Žižek lo definisce “mostruoso” perché un Dio onnipotente e onnisciente, che potrebbe imporre la sua esistenza all’uomo, preferisce incarnarsi, diventare uno di noi. E’ dunque un dialogo sull’Incarnazione, svolto con la passione consapevole di essere di fronte alla storia più importante di tutte le storie capitate all’umanità.

Per finire, un’altra citazione tratta da questo libro: “La cosa fondamentale che Cristo ha aggiunto al Vecchio Testamento è stata se stesso. Questa è la sua vera ‘stravaganza‘; tutte le altre ‘stravaganze etiche’ si fondano su, e seguono, questa: egli non è un semplice profeta di Dio, ma Dio stesso – è per questo che la sua morte è così sconvolgente, uno scandalo ontologico (non soltanto etico)”.