Avendo seguito con interesse il dibattito sulla certezza ospitato da IlSussidiario.net ed avendo particolarmente apprezzato gli interventi di Costantino Esposito e di Maurizio Ferraris, mi permetto un piccolo contributo.

Quando Nietzsche scriveva “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” non intendeva dire che affermazioni quali “il sole sorge al mattino,” “molti pomodori maturi sono rossi” o “il genoma umano è composto da 26 cromosomi” sono false. Intendeva invece sottolineare come i meri fatti espressi da simili affermazioni di per sé non impongono nulla di definitivo alle nostre valutazioni, ai nostri valori. Così, ad esempio, lo stesso fatto bruto espresso dall’affermazione “il genoma umano è composto da 26 cromosomi” può essere evocato per richiamare l’attenzione alla meravigliosa complessità della nostra fattura oppure per ricordarci che in fondo non siamo molto diversi dalle scimmie.



Allo stesso modo che “il sole sorge al mattino” può essere affermato con stupore colmo di gratitudine, può fungere da ouverture in una lezione di astronomia oppure può esprimere la monotonia di un’altra giornata in cui non accadrà nulla di realmente nuovo. Per Nietzsche, la dimensione del valore è interamente slegata dalla dimensione del fatto. Quest’ultima è come assorbita, fagocitata dalle istanze della prima. I fatti stessi sono “costruiti” a partire da certe esigenze valoriali che siamo noi a stabilire in piena libertà. Che questo sia possibile, e che quindi Nietzsche avesse in qualche modo ragione, si può facilmente verificare aprendo un qualsiasi giornale o ascoltando un qualsiasi comizio politico. Gli stessi numeri e le stesse percentuali, gli stessi “fatti” sono evocati per dimostrare tutto e il contrario di tutto.



Ora, se per Nietzsche la scoperta di questa “slegabilità” del valore dal fatto fu motivo di entusiastica celebrazione, noi possiamo dire (un secolo dopo Nietzsche), che proprio qui sta l’origine dell’incertezza che ci tormenta, come Esposito ha ben mostrato nel suo intervento al meeting di Rimini. Non è che ci manchino i meri fatti. Di quelli ne abbiamo a disposizione sempre di più. È che ci mancano i criteri per scegliere tra le mille interpretazioni cui questi fatti, apparentemente, possono dare adito. In questo senso ritengo che proporre di ritornare al “fatto bruto” non offra niente di particolarmente new (pertanto l’etichetta new realism mi lascia piuttosto perplesso), poiché dai fatti bruti non ci siamo mai allontanati. È dai fatti carichi di valore che ci siamo allontanati, o meglio, ci siamo progressivamente disabituati a cogliere il valore nel fatto, in larga parte per merito dei cattivi maestri che ci hanno promesso che questo avrebbe aperto nuovi orizzonti di libertà.



Per superare questa impasse occorre anzitutto richiamare come, contrariamente a quello che ci ritroviamo a dire se interpellati, noi viviamo sempre immersi in un mare di certezze. Siamo certi che ci risveglieremo nel letto in cui ci siamo addormentati, siamo certi che girando la testa in una certa direzione gli oggetti familiari della nostra stanza riappariranno, siamo certi che alzarsi dal letto richiederà fatica, siamo certi che il caffè della mattina avrà il suo aroma consueto e che la nostra consorte non vi ha versato dentro del veleno. Quand’anche questo accadesse, sarebbe come uno strappo nel tessuto robusto delle nostre certezze, che verrebbe subito ricucito e la certezza corrispondente sarebbe rimpiazzata da una nuova certezza, ad esempio, che la donna che abbiamo sposato è realmente cambiata negli ultimi anni….

Tutte queste certezze sono ancorate a fatti che abbiamo ripetutamente accertato nel tempo, e questi fatti non sono bruti ma sono sorgenti immediate di valore. È “bene” che io mi risvegli nello stesso letto e che il caffè mantenga il suo meraviglioso aroma. È “male” che anche questa mattina la stanchezza mi costringa ad alzarmi con fatica. La nostra vita è letteralmente tutta intessuta di queste certezze, direttamente acquisite o assunte da altri esseri umani che riteniamo attendibili. Il problema per noi moderni è triplice: 1. per lo più restiamo incoscienti di questo mare di certezze; 2. facciamo molta fatica a trasferire queste certezze, date a livello intuitivo, nel campo del giudizio; 3. quand’anche questo accada, resta per lo più un episodio isolato e presto dimenticato: raramente ritorniamo sui nostri giudizi per riattingerne l’evidenza o modificarli se nel frattempo si sono mostrati inadeguati.

Per superare il senso di incertezza occorre dunque: 1. imparare di nuovo a guardare l’esperienza; 2. acquisire un metodo per trasferire le certezze interne ad essa nella sfera del giudizio; 3. ritornare sempre di nuovo sui nostri giudizi affinché si consolidino e diventino essi stessi la base per giudizi ulteriori, più complessi ma nondimeno legati mediante giudizi più semplici alla concretezza della nostra esperienza.

In sintesi (e per concludere) azzarderei la seguente ipotesi: l’incertezza non sussiste a livello dell’esperienza, che è invece per tutti una sorgente inesauribile di certezze, ma a livello del giudizio. Certo, anni di giudizi slegati dall’esperienza creano come una coltre intorno ad essa che rende difficile rimettersela davanti agli occhi nella sua purezza. Tuttavia non è impossibile. Occorre però – sia in filosofia, sia nella vita di ciascuno – un metodo, un lavoro per imparare di nuovo a giudicare.