Settimana scorsa mi è capitato di passare da Casarsa della Delizia, paese dal nome stupendo, sulla strada tra Pordenone e Udine. Fermarsi qui è un po’ un obbligo, perché Casarsa è il paese dov’è nato Pier Paolo Pasolini. C’è ancora la sua casa, diventata oggi un centro studi dove sono conservati anche alcuni suoi disegni giovanili. E nel piccolo cimitero c’è anche la sua tomba. Una semplice lastra quadrata di pietra con inciso il nome; a fianco c’è la tomba dell’amatissima madre Susanna, morta sei anni dopo di lui. Davanti, a tagliare il percorso di chi cammina sul vialetto, è stata interrata una barra della stessa pietra, come a chiedere una sosta al visitatore.
La tomba venne progettata da una grande architetto friulano, Gino Valle, tra i protagonisti di quell’esperienza civilissima che è stata la ricostruzione di questa terra dopo il terremoto del 1976. Pasolini era un senza patria. Era morto nelle circostanze che tutti ben conosciamo sul Lido di Ostia, la notte del 2 novembre 1975, ucciso da Pino Pelosi. Era dovuto “scappare” dalla sua Casarsa nel gennaio 1950, perché la sua omosessualità destava scandalo in un piccolo paese come questo; e anche Il Partito comunista di Pordenone lo aveva espulso nel 1949. Aveva dovuto fare le valigie quasi di soppiatto e prendere il treno per Roma, insieme a sua mamma. «Fuggii con mia mamma e una valigia e un po’ di gioie che si rivelarono false, su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve», racconta in Il poeta delle ceneri. Lasciava il posto di insegnante e arrivava in una grande città, senza un lavoro, dove lo aspettava il «periodo più tremendo» della sua vita. «Ignorato da tutti, divorato dal terrore interno di non essere come la vita voleva», scrive ne Il treno per Casarsa.
Pasolini è stato, non solo in senso geografico, un senza patria. Eppure nella semplicità di questo cimitero, dove è sepolto anche l’amato fratello Guido, ucciso in una guerra fratricida tra partigiani nel 1945, si ha la sensazione che questo sia un luogo in cui finalmente davvero gli sia dato di “riposare in pace”. Lo disse anche padre Davide Turoldo, friulano pure lui, nella predica al funerale che si tenne nella chiesa di Santa Croce, davanti a una folla grande e commossa. Una predica bellissima in cui Turoldo si rivolgeva alla mamma Susanna: «Eri tu la sua vera patria, il luogo della sua pace, il solo asilo sicuro. Tu che riassumevi per lui e per noi questa nostra terra, e la gente umile di cui si sentiva fratello… E tu come madre di un emigrante ora lo riaccompagni al piccolo cimitero…. verso paesi certo più miti e più cristiani».
In quella stessa chiesa di Santa Croce è custodita la lapide che è all’origine di una delle opere del periodo friulano di Pasolini, un testo teatrale pubblicato postumo nel 1976, I Turcs tal Friuli (in italiano, I turchi in Friuli). La lapide infatti era un ringraziamento per lo scampato pericolo dalle invasioni turche del 1499. L’opera, scritta nel 1944, rivela quel sogno che Pasolini avrebbe inseguito per tutta la vita: un luogo in cui sentirsi pienamente a casa. L’epica cristiano-contadina del Friuli che si era opposto ai Turchi e che aveva un suo risvolto d’attualità nel Friuli che si opponeva ai nazisti, era un’epica di cui Pasolini si sentiva non spettatore ma parte. Ce ne si rende conto leggendo la stupenda preghiera corale che apre il dramma (il testo è in realtà scritto in uno stupendo dialetto): «Cristo, pietà per il nostro paese… Oggi c’è la morte qui attorno… Ma noi ci ricordiamo che un’altra volta tanti secoli fa, quando i Turchi hanno bruciato e distrutto tutto il Friuli, Tu hai avuto pietà del nostro paese, hai fatto il miracolo di salvarlo. E noi siamo ancora contenti di quel miracolo e Ti ringraziamo ancora… Allontana un’altra volta il pericolo e la morte, lasciaci qui ancora a vivere e patire e pregarTi e morire in pace». Pasolini aveva allora 22 anni, era in quella stagione della sua vita che avrebbe chiamato la “meglio gioventù”.
Nella raccolta di poesie che prende quel titolo, ce n’è una intitolata Ciant da li ciampanis (Canto delle campane), che chiude così: «Io sono un spirito d’amore, che al suo paese torna di lontano». In quel desiderio di tornare c’è lo struggimento che segnò tutta la vita di Pasolini («Non piango perché quel mondo non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito», scrive in un altro verso della Meglio gioventù). Per tutto questo la sosta a Casarsa davanti alla tomba di Pasolini è un’esperienza che comunica quello stesso struggimento e riempie di commozione.
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