I “festeggiamenti” della sera del 12 novembre a Roma, dopo le dimissioni di Berlusconi, dimostrano che la fine del governo non è affatto la soluzione del problema politico attuale. Invece, sono piuttosto l’indicatore più certo ed inequivocabile della grave crisi in cui la nostra democrazia si trova in questo momento storico. Certamente, quella serata non può essere paragonata in nessun modo ai tragici eventi a Roma nella “giornata internazionale dell’indignazione” del 15 ottobre, ma certamente e senza alcun dubbio ai cortei che lo stesso giorno in modo pacifico ha voluto scendere in piazza contro il governo. Solo che il messaggio degli “indignati” è stato adombrato prima dagli atti violenti ed intollerabili dei black bloc, e poi dagli scenari di una festa da «mondiale vinto».



E così forse finora non abbiamo capito che cos’è veramente successo in questi due giorni tragicamente importanti per comprendere in quale stato si trova la “salute” della nostra democrazia. Dopo il 15 ottobre, i grandi partiti hanno sottolineato giustamente che gli atti di violenza estrema costituivano nient’altro che un “incidente” – pur grave e intollerabile – all’interno di un evento di per sé “normale” per una democrazia “funzionante”, cioè di una manifestazione: perciò non si dovrebbero confondere i centinaia di migliaia di manifestanti pacifici con i circa mille black bloc che giustamente venivano caratterizzati come «criminali». Infatti, praticamente tutti gli esponenti dei grandi partiti di destra e di sinistra convenivano nella spiegazione – senz’altro giusta – che in fondo il corteo – “depurato” dai black bloc – non era stato altro che un segno di particolare vivacità di una democrazia funzionante. Ma allora anche i festeggiamenti del 12 novembre sono un tale segno di una “democrazia viva”?



Paradossalmente, e anche se in modo più nascosto, anche questa volta i grandi partiti ne hanno dato una tale interpretazione: quello dell’opposizione quando parla indebitamente di un «giorno di liberazione» – come se il popolo si fosse attivamente liberato da una sorta di “tirannia” –, e quello del governo nel denunciarli come esagerazioni perché certamente non si potrebbe festeggiare la vittoria di un certo partito se le dimissioni non fossero il frutto di una vittoria “democratica” del partito dell’opposizione.

Entrambi gli eventi sono stati interpretati, quindi, a partire dalla loro superficie esagerata, ma non sono stati capiti nella loro potenziale problematico. Anche se sicuramente nel loro fenotipo sono difficilmente paragonabili tra di loro, già le proteste contro la Tav in Piemonte, contro la stazione centrale a Stoccarda, ed altri cortei di indignati in tutta l’Europa esprimevano un disagio simile nell’attuale sistema democratico: sempre i manifestanti hanno rivendicato una partecipazione politica “dal basso” che dal sistema democratico-parlamentare non vedevano più garantita. Infatti, l’impressione generale è che negli ultimi decenni la politica si sia sempre più allontanata dalla base democratica e sia diventata il “mestiere” di alcuni “professionisti” o “esperti”, che seguono interessi particolari – come possono essere interessi privati, economici, industriali – staccando le decisioni politiche dalla loro legittimazione democratica. In tale situazione, il voto elettorale risulta per tanti solo una questione formale che non ha più niente a che fare con la possibilità della popolazione di influire sulla politica: l’impressione ormai diffusa è che la decisione alle urne, per il partito di destra o di sinistra, non ha alcun effetto politico-reale oggettivamente “misurabile”.



Tale analisi si conferma in modo emblematico negli ultimi avvenimenti politici: mentre, da un lato, il “mandato democratico” è interpretato come un assegno in bianco per una quinquennale attività governativa, dall’altro lato si è tentato di far cadere il governo per motivi prevalentemente moralistici, e quindi in servizio di un’altrettanta logica partitica di potere e certamente non democratica. In questa situazione, si sono formati i primi cortei degli “indignati”: non con lo scopo di esercitare un “diritto democratico”, ma piuttosto come reazione di compensazione per il mancante ruolo democratico del popolo. L’effettivo cambiamento del governo poi si è svolto nuovamente senza un atto concreto ed espressivo del popolo, ma prevalentemente per pressioni del mercato e dell’Europa – e in questa linea i festeggiamenti sono stati di nuovo una “reazione non democratica”, e quindi di mera compensazione, di un popolo allontanato dalla partecipazione democratica.

Non si tratta, quindi, in nessuno dei due casi, di una rivendicazione di “diritti democratico-partecipativi”, ma di una reazione non-democratica ad una grave crisi del sistema democratico stesso. Se questa analisi si dovesse rilevare confacente, allora abbiamo a che fare, in questi ultimi due “casi” degli “indignati”, non con una crisi «dialettica» ma con una crisi «entropica» della democrazia. Questi due termini, introdotti da Zamagni nell’analisi del sistema economico, possono essere applicati anche all’attuale crisi politica: mentre una crisi dialettica esprimerebbe una semplice disfunzione della democrazia che nei suoi fondamenti è ancora ben radicata nella società, una crisi entropica significherebbe proprio il disfacimento del senso dell’istituzione “democrazia” stessa. Analizzando gli eventi delle settimane scorse, si sta delineando il pericolo concreto che siamo all’interno di una crisi del secondo tipo. Questo innanzitutto non significa, come qualche sondaggio o analisi sociologica ci vuole suggerire, che abbiamo a che fare con una popolazione “depoliticizzata” o “politicamente disinteressata”.

I fatti dell’assenteismo alle urne e del numero decrescente dei membri dei partiti, solo per fare due esempi, sono piuttosto il risultato della realtà che i cittadini non si sentono più parte attiva di una politica fatta ormai da partiti ed “apparatschik”. Poi, ultimamente, il modo d’agire della politica nei confronti della crisi economico-finanziaria, per gli “indignati” è stato solo l’ennesima conferma della perdita della sua anima, cioè la promozione del bene comune, che si trova in balia di altri meccanismi che impediscono qualsiasi legittimazione democratica. Il politologo Colin Crouch chiama questa situazione “post-democrazia”: «anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élites che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». 

La politica non si legittima più nei confronti dei cittadini (per l’“input”), ma per ciò che produce – soprattutto leggi e regolamenti – (per l’“output”), per cui i partiti e i processi politici si plasmano sempre di più analogamente a quelli delle aziende e secondo meccanismi e leggi del mondo economico (ad es. le informazioni emesse dal governo non mirano più alla formazione di un’opinione politica tramite discussione pubblica, ma assomigliano ad una campagna pubblicitaria per stimolare i consumatori ad “acquisire” i “prodotti” del governo), perdendo la sensibilità per le proprietà della legittimazione politica.

Tale situazione fa aumentare la dipendenza della politica da lobbisti, consulenti ed esperti, dallo sponsoring da parte di industriali e privati, e si forma una classe politica che gestisce l’accessibilità e le regole della propria legittimazione: in questo modo, il partito si forma non per legittimazione democratica ma sulla base di una élite interna. Di conseguenza gli elettori devono essere “convinti” attraverso “campagne pubblicitarie” ad andare alle urne. Questo sviluppo “post-democratico” viene ulteriormente favorito, da parte della cittadinanza, dal crescente consumismo, come sottolinea Sheldon Wolin. I cortei degli “indignati” allora, come li possiamo osservare ormai in tante democrazie europee, esprimono la decisione in gran massa di voler recuperare la loro partecipazione democratica – per dirla con Crouch, la «costante ricerca di una nuova creatività dirompente all’interno del demos [che] garantisce ai democratici egualitari la principale speranza per il futuro».

La dinamica preoccupante di questo nuovo movimento degli “indignati”, allora, non è il fatto che anche qualche gruppo di black bloc si mischi tra loro o che festeggino le dimissioni del governo come un «mondiale vinto», ma che esprima e renda evidente una grave crisi nella quale si trova la nostra democrazia parlamentare. Il problema, però, è che essi si situano al di fuori del processo democratico-parlamentare stesso. Instaurano una sorta di “terza camera”, auto-dotata da un lato del “diritto di veto” ad alcuni progetti infrastrutturali o ad altri che già hanno passato il processo di legittimazione democratico-parlamentare, e dall’altro lato del “diritto di approvazione” dell’avvenuta dimissione di un governo tramite la festa in piazza. In entrambi i modi, però, non fanno che aggravare quella crisi della democrazia che giustamente denunciano. Per questo non ci si può limitare alla speranza di Crouch che tratta di «nuove creatività dirompenti», perché al processo democratico-parlamentare di rilevare l’opinione della maggioranza non c’è alternativa che si possa conciliare con i diritti fondamentali della persona.

La mobilizzazione delle masse non contiene nessun criterio per la formazione di un’opinione politica nel rispetto delle opinioni individuali, ovvero in altre parole: non può realmente rilevare qual è la vera opinione della “maggioranza” nel dovuto rispetto e cioè nella garanzia dei diritti della “minoranza”. Inoltre, anche i cortei o i festeggiamenti degli indignati non risolvono, come hanno dimostrato studi recenti, lo squilibrio nella partecipazione politica, nel senso che non includono maggiormente i gruppi della popolazione caratterizzati da formazione, reddito e competenze bassi, perché situazioni della vita precarie non porterebbero tanto alla reazione di protesta ed impegno personale, ma piuttosto alla rassegnazione.

Quali conseguenze politiche possiamo trarre da questa analisi? (1) Le analisi e le considerazioni che vengono riassunte con il termine “post-democrazia” danno una lettura problematica di questi “nuovi eventi” nelle nostre democrazie. Devono essere interpretati come segni d’allarme per iniziare una politica atta a ritrovare i valori ispiratori della democrazia e di metterli nuovamente in atto. In questo momento, le istituzioni democratiche devono rendersi conto della loro responsabilità ad aver stabilito una politica poco dialogica e poco partecipatoria, e ad aver prodotto, tramite l’inosservanza della legittimazione democratica, la reazione degli “indignati”. In questo momento, si tratta di trovare nuove piste non solo per riguadagnare questi terreni perduti, ma anche per aprire delle prospettive stabilendo nuove forme di partecipazione democratica nel XXI secolo. 

(2) In questo scenario, l’“indignarsi” – oltre ad essere una reazione spontanea senz’altro comprensibile e forse necessaria per indicare i gravi problemi di legittimità democratica – non può certamente essere né l’ultima parola, né tantomeno una soluzione alla crisi della democrazia. Perché l’indignazione esprime un sentimento soggettivo e un momento personale di disprezzo o di apprezzamento, il quale a livello individuale ognuno è libero di esprimere, ma che non può essere rivendicato come “diritto fondamentale” nei confronti dello Stato.

Tale diritto infatti è la “libertà d’opinione”, che vincola qualsiasi espressione di un proprio sentimento contrario al governo o a decisioni parlamentari alla forma “giuridica” di essere “opinione”, ossia di essere articolata nei limiti del diritto e nel rispetto civile degli altri e delle istituzioni. (3) La “lezione” per le istituzioni parlamentari è senz’altro quella dell’urgenza di trovare nuove e valide forme di partecipazione e quindi di legittimazione democratica. Certamente i movimenti degli “indignati” non devono essere né sottovalutati nella loro problematicità democratica, e quindi nel loro essere “indicatore” di una crisi «endogena» della nostra democrazia, né sopravvalutati come accade quando la politica si assomiglia ad essa e copia i suoi metodi.

A questa lezione si aggiunge quella per gli indignati che la protesta civile in uno Stato di diritto si può svolgere sempre e soltanto sulla base del diritto. Questo pone innanzitutto un limite al modo di esprimere l’“indignazione”, perché ogni rivendicazione del diritto di opinione presuppone il situarsi sullo stesso suolo del diritto: in altre parole, della convivenza civile, quindi costituzionale, tra persone. Proprio per il fatto che la democrazia è una forma di Stato vulnerabile, essa esige un fondamento forte di diritto e di costituzionalità, che non deve mai essere posta in dubbio, tanto meno da parte di quelli che rivendicano “diritti liberali” per poter svolgere la loro protesta.

(4) Un “governo tecnico” può essere una soluzione di uscita da questo pericolo in cui si trova la nostra democrazia secondo l’analisi appena svolta? Un’eventuale risposta positiva dipende certamente da tanti fattori, innanzitutto dalla misura in cui avrà effetti positivi sui partiti esistenti. Se riuscirà a formare le necessarie larghe intese per alcuni riforme istituzionali capaci di rafforzare la partecipazione democratica, e se soprattutto riesce a fermare una dinamica di “tecnicizzazione” della politica che ha portato ad un sostanziale abbassamento della struttura democratico-partecipatoria dei partiti stessi, allora può certamente introdurre qualche elemento positivo che indichi la via d’uscita dall’attuale crisi democratica. In questa chiave, il vantaggio di un governo “tecnico” potrebbe essere proprio quello di oltrepassare una “tecnica professionistica” politica, quella denunciata dagli autori della “post-democrazia”, e quindi quello di risultare tutt’altro che “tecnico”. Tale risultato potrà essere senz’altro non semplicemente quello di un “governo”, ma di una nuova riflessione e collaborazione tra tutti i partiti e le forze politiche. Una prospettiva certamente difficile, ma non impossibile.

A questa lezione si aggiunge quella per gli indignati che la protesta civile in uno Stato di diritto si può svolgere sempre e soltanto sulla base del diritto. Questo pone innanzitutto un limite al modo di esprimere l’“indignazione”, perché ogni rivendicazione del diritto di opinione presuppone il situarsi sullo stesso suolo del diritto: in altre parole, della convivenza civile, quindi costituzionale, tra persone. Proprio per il fatto che la democrazia è una forma di Stato vulnerabile, essa esige un fondamento forte di diritto e di costituzionalità, che non deve mai essere posta in dubbio, tanto meno da parte di quelli che rivendicano “diritti liberali” per poter svolgere la loro protesta.