“Solo un’anima purificata può gustare il profumo della rosa”: ha scritto Claudel in Figures et paraboles. In effetti c’è una bella differenza tra il muoversi nella realtà del mondo semplicemente per piegare le persone e le cose al proprio uso e consumo, o al contrario entrare in rapporto con tutto disponibili ad accogliere, a servire, ad amare quello che ci viene incontro per il suo valore e per il significato a cui introduce.



La citazione dal poeta francese si trova all’inizio di un prezioso volumetto del grande esperto di patristica e di storia del pensiero religioso, Jean Daniélou, da poco riproposto da Cantagalli con una bella prefazione di Jonah Lynch: Il segno del tempio. Il titolo può sembrare enigmatico e non ci preme ora parlare del contenuto del libro come tale. Segnalo solo l’interesse del capitolo di avvio, dedicato agli esordi della lunga storia in cui è rifluita l’avventura dell’uomo alle prese con il suo destino. Daniélou parte dal “Tempio cosmico”. È la struttura originaria ed elementare di tutto il creato. In un Giardino dominato dai segni in cui ogni esiguo dettaglio parla di Dio, Adamo inaugura l’impresa della costruzione della coscienza della persona. Il suo cosmo è un cosmo sacralizzato, abitato dalla presenza di un mistero che lo invade con la forza di una eloquenza esplicita e del tutto trasparente. La ribellione di una male impostata volontà di autonomia – ci insegna il racconto della Bibbia – non ha distrutto per sempre quelle robuste catene dell’essere capaci di tenere insieme il finito e l’infinito. Abramo, commenta Daniélou, è ancora testimone di una natura che non ha dimenticato di essere un tempio dove si rivela lo Spirito che vi ha immesso il soffio della vita: “un gruppo d’alberi, una sorgente sono per lui un frammento di Paradiso dove offre i propri sacrifici; una pietra qualsiasi gli serve da altare”. Neppure la rivelazione fatta a Mosé ha abolito questa provvisoria sacralità del desiderio umano, espellendola dall’orizzonte di una realtà investita dalla Legge positiva di Dio: il roveto ardente non era un semplice arbusto divorato dal fuoco; era questo, e nello stesso tempo qualcosa di molto più vertiginosamente coinvolgente, sull’orlo di un abisso che metteva in comunicazione con l’eterno che sta all’inizio e alla fine di ogni cosa.



Nelle geniali figure sintetiche della narrazione biblica, che riassumono il senso della storia intera dell’uomo, affiora la vena sorgiva di una religiosità “primitiva, originale, comune a tutta l’umanità e della quale  si ritrovano le tracce – deformate, contaminate, pervertite – in tutte le religioni”. Il fascino pieno di attrattiva del sacro più primordiale si prolunga, dice ancora Daniélou, fino ai poveri pastori e ai re magi del Nuovo Testamento, che si mettono in cammino aderendo alla suggestione di segni celesti, prestando ascolto alle voci che rimbalzano dalle fibre più nascoste di un universo attraversato dalle presenze sovraumane degli angeli, generosi annunciatori della maestosità del Dio che si fa uomo celandosi nella carne di un umile figlio di Israele.



Arrivati fin qui, sembrerebbe che restiamo fermi alle pie elucubrazioni della sapienza religiosa di un passato arcaico e remoto. Ma non sono favole e miti decaduti. Il nucleo profondo di realtà a cui la lettera della Parola sacra rinvia fotografa un dramma che, dalle prime origini del mondo, arriva senza mai la minima smentita fino a noi oggi. L’uomo non basta a se stesso. Cerca la perfezione, il suo compimento. È domanda. Ma per cercare risposte, se non vuole muoversi a tentoni, annaspando nel buio, non può che partire dalle provocazioni, dai segnali o dagli inviti che la realtà in cui è immerso gli lancia. Non a caso diciamo che la realtà “è segno”: strutturalmente, in forza della sua stessa costituzione, con tutta la straordinaria ricchezza delle manifestazioni in cui si scioglie l’imponenza multiforme dell’essere, dalle più microscopiche e banali alle più splendidamente gloriose, la realtà è l’orma materiale in cui il richiamo del vero, del massimo bene e del bello catturano il cuore dell’uomo e lo sollecitano. Nella forza incisiva del segno, anche sotto l’urto doloroso di una prova o di un male che fa sanguinare, si mostra il bisogno inesauribile di un “pieno” al quale si scopre di doversi spalancare per riempire il vuoto del proprio limite e della propria insufficienza.

Se nella Bibbia e nei libri sacri delle altre tradizioni religiose si incontrano le pietre miliari di una posizione di apertura verso la potenza del reale visto come strada per ricongiungersi con l’origine da cui tutto trae il suo significato, dobbiamo subito aggiungere che il germe di questo senso sacramentale del divino è stato sapientemente custodito e sviluppato nelle forme di una fiduciosa pratica educativa, estesa come possibilità a ogni singolo individuo, nel tragitto millenario della storia della cristianità. La centralità della logica realistica del “segno”, che parla e rivela a partire dalla materialità assolutamente non scavalcabile della sua evidenza, in forza della presenza di cui è fisicamente carico, è un crocevia che unisce tra di loro teologia, cultura simbolica, liturgia e arte cristiana. Lo documenta con una lussureggiante abbondanza di dati, portandosi verso l’apogeo medievale e poi modernamente “barocco” (sul versante cattolico) della fioritura di una Ecclesia madre dei popoli dell’Occidente europeo, un testo che dobbiamo a uno dei più autorevoli specialisti dello studio dei rapporti della tradizione figurativa delle immagini con i canoni della letteratura religiosa applicata alla formazione dell’uomo credente. Ne è autore Ralph Dekoninck e il libro è intitolato: Ad imaginem. Statuti, funzioni e usi dell’immagine nella letteratura spirituale gesuitica del XVII secolo. Già dal linguaggio adottato per definirne il tema, si capisce che è un saggio impegnativo. Come si usa dire: per addetti ai lavori. Non è nemmeno recentissimo (Librairie Droz, Ginevra 2005), ma conserva tutto il suo peso di decisiva conferma a sostegno di dimensioni troppo a lungo sottovalutate da chi discute di radici e identità di quella che un tempo era semplicemente la “cristianità”.

Il cristianesimo è qui ricondotto alla “teologia del visibile”, riprendendo una felice formula di Hugo Rahner. Dio ha creato il mondo ed è entrato dentro la sua realtà. L’uomo stesso è stato concepito “a sua immagine e somiglianza”, e Cristo è il vertice supremo delle forme visibili che svelano l’infinita potenza amorevole della gloria divina. Ma anche le cose materiali, gli esseri viventi, i fatti della storia di ogni uomo sono un segno che trattiene un riflesso, magari solo incerto e annebbiato, della matrice da cui ricava vita e sostentamento, qui ed ora come in tutto lo scorrere inesorabile del tempo.

Il mondo si rivela così un libro da squadernare. È come un teatro, o uno specchio che rimanda all’immagine del suo ultimo artefice. Tutte le cose possono diventare segno: sono una “muta predicazione” che si impone da sola, che parla con vigore al segreto della coscienza dell’uomo, per il solo fatto stesso di esistere e di lasciarsi vedere o toccare, in quanto realtà presente che si fa veicolo di una Presenza più nascosta a cui ci si deve arrendere. Le cose reali hanno valore in sé, ma sono anche un rimando che si può diventare capaci di decifrare. Si può arrivare a “vedere Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio”, come scriveva il p. Joseph Filère, nel 1636. Ma già le costituzioni dei gesuiti, a fine ‘500, avevano esortato con decisione a “cercare in tutte le cose Dio nostro Signore”. Dalle realtà materiali, si può salire come lungo una scala fino alle vette del Significato ultimo, secondo un itinerario di progressione che Bellarmino ridisegna sulla scia della mistica antica e di san Bonaventura.

E in questa risalita che è, nello stesso tempo, un ritorno al centro da cui tutto deriva, le immagini artificiali prodotte dall’uomo possono diventare un aiuto potente che esalta la carica rivelatrice della natura frutto miracoloso del logos di Dio. Dai grandi Padri della Chiesa dei primi secoli fino alla Scolastica di Tommaso e dei suoi continuatori moderni il cristianesimo ha insegnato ad amare la realtà tanto quanto i segni o i simboli in grado di rappresentarla, in un certo senso di prolungarla e di farla rivivere. La fede ha dato carne al mistero nutrendone la piena legittimità della raffigurazione materiale, promuovendone il culto pieno di rispetto e tremore. Se la realtà come tale è sacramento che ospita in sé il divino, davanti al segno fra tutti paradigmatico di un’ostia consacrata è diventato possibile confessare fiduciosi: “Adoro Te devote, latens Deitas” (“Ti adoro pieno di devozione, Dio che te ne stai nascosto sotto il velo di questo segno efficace”).

Lo scetticismo dualistico e desacralizzatore ha cominciato a prendere piede solo entrando in lotta con questo ostinato realismo non ancora accecato dal positivismo.